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Presenze francescane a Teano: Fra' Vito da Casalnuovo
 
Frontespizio dell’XI tomo del Leggendario Francescano, ed. Venezia 1722
 

Nella seconda metà del XVII secolo il convento francescano di Sant’Antonio da Padova di Teano fu teatro di due miracolosi eventi. Ne abbiamo testimonianza dal settecentesco Leggendario francescano, una sorta di catalogo «nel quale secondo l'ordine dé mesi si rapportano le vite, e morti dé santi, beati, ed altri huomini venerabili & illustri», appartenuti fin lì ai tre ordini francescani.
Il Leggendario fu compilato «per la prima volta dal padre Benedetto Mazzara di Solmona, minore riformato della Provincia di S. Bernardino» dimorante nel convento francescano di San Nicola di Sulmona, e stampato in quattro tomi a Venezia nel 1676 per i tipi di Bartolomeo Tramontino e una seconda volta, nel 1689, adeguatamente ampliato, presso l’altro tipografo veneziano Andrea Poletti. In seguito, fu ancor più accresciuto e riordinato in dodici tomi da padre Pietr’Angelo da Venezia, giustappunto nel 1719, e stampato, ancora una volta nella città lagunare, presso la tipografia di Domenico Lovisa.
L’opera che, verosimilmente, prende a prestito il suo titolo dalla Legenda maior, la biografia ufficiale di San Francesco scritta in latino da San Bonaventura da Bagnoregio su commissione dell’Ordine dei Frati Minori, e approvata dal capitolo generale di Pisa nel 1263, appartiene alla letteratura edificante e devozionale tipica dell’epoca; ovvero a quella produzione letteraria che aveva quale suo precipuo scopo quello di far conoscere - come scrive padre Mazzara nella prefazione al suo Leggendario - «le vite di moltissimi Huomini vissuti figli e fattisi imitatori del Serafico Patriarca, quali possono non hà dubbio spronar’ i Nostri, ed incitar’altri alla perfezione, scopo principale degl’Autori de’ Sagri Volumi». Nei tomi, ampliati e ristampati più volte dopo il 1719, le biografie dei frati sono disposte in ordine mensile, in base alla data della loro morte.
Tra i frati relazionati, nel XI tomo dell’edizione del 1719, alla data del 27 dicembre, troviamo, tra gli altri, quel Fra’ Vito da Casalnuovo (l’antico toponimo dell’attuale Manduria, in provincia di Taranto), che, vissuto per qualche tempo nel convento di Sant’Antonio da Padova di Teano, raggiunse, per dirla con il canonico e storiografo teanese Arminio De Monaco, le «maggiori vette di santità» cercando «in tutti i modi di imitare e praticare lo spirito del Padre serafico S. Francesco».
Padre Pietr’Angelo da Venezia riporta, infatti, sulla scorta di quanto aveva appeso dalla Cronica de’ nostri Riformati di Napoli, che il frate manduriano una volta entrato nell’Ordine visse una vita non molto dissimile da quella dei confratelli, fino a quando, dopo aver riletto e meditato a lungo la lettera di san Giacomo apostolo, risoluto ad osservarne appieno i consigli, tormentato, viepiù, dal desiderio di raggiungere maggiori vette di perfezione, decise di affrontare, sforzandosi di imitare «l’asprissima vita che avevano menata li Santi del nostro Ordine», l’angusto percorso della santità.
Fu così che, come riporta il suo biografo, «Stando di stanza nel convento di S. Antonio di Teano fu veduto più volte dormire nudo sopra una loggia scoperta, esposto alli rigori di rigidissimo inverno, contentandosi piuttosto di gelare e interezzire che dar luogo a qualche larva notturna d’impurità». Moti dei sensi che contrastava, talvolta, anche flagellandosi a sangue con il cilizio o gettandosi tra le spine e le ortiche dei boschi circostanti il convento. Altre volte, ancora, nei suoi frequenti raccoglimenti in meditazioni e preghiere fu visto entrare in estasi e, addirittura, in una circostanza, sempre secondo il suo biografo, avere la visione di lui mentre, in cielo aperto e in una grande luce, era presentato alla SS. Trinità dalla Vergine, san Giuseppe e san Francesco.
Laddove, però, fra’ Vito diede prova della sua santità - suggestionato oltremodo dalla lettura del secondo capitolo della Lettera di Giacomo dove l’apostolo critica i favoritismi personali, sollecitando ad aiutare i bisognosi - fu giustappunto nel rapporto con i poveri. Narra, infatti, il Leggendario che già quando esercitava l’ufficio di portinaio nel convento della Croce di Palazzo di Napoli «raccoglieva un gran numero di poveri e con inesplicabile carità e pazienza li dispensava il cibo. Procurava con grandissima diligenza, pane e legumi dalli sui divoti, li cuoceva di propria mano, e poi li distribuiva alli miserabili, e con tanta riverenza ed ossequio, come se servisse l’istesso Cristo in persona». A questo smisurato amore per i poveri sono collegati, peraltro, due memorabili miracoli operati dal frate nei confronti di altrettanti teanesi.
Il primo nei riguardi di tale Tino de Angelis, un nobile che «…essendo stato mortalmente ferito nel volto da una palla di schioppo, oltre la qual ferita, era talmente afflitto da una nojosa inappetenza, che già era ridotto all’estremo», sarebbe guarito dall’infermità dopo che, su invito del frate, avrebbe aiutato i poveri, distribuendo loro grano ed altri generi di conforto. L’uomo sarebbe guarito allorquando il frate «presa la scodella di un mendico, pose dentro il cibo per sé apparecchiato e diedelo a mangiare all’infermo».
Il secondo miracolo sarebbe avvenuto nei confronti di un altro nobile, «agente dello Stato di Medina (l’attuale Arabia Saudita, n. d. A.), che affatto disperato di poter ricevere una gran somma di denaro che doveva avere dal Viceré, andò con la moglie a raccomandarsi alle orazioni del P. Vito, manifestandoli la sua miseria che era già gionta all’estremo, non avendo più modo di vivere, perché aveva impegnate tutte le sue cose più preziose». Alla richiesta il buon frate, fattesi consegnare delle fave da distribuirle ai poveri, avrebbe risposto che si sarebbe impegnato a implorare la grazia per mezzo degli stessi poveri invitandoli a pregare «per una persona che si raccomandava alle loro orazioni». Il miracolo sarebbe presto avvenuto giacché «il giorno seguente quel signore tornò in convento a renderli umilissime grazie, perché inaspettatamente e fuor di ogni isperanza, aveva ricuperati ventimila scudi».
A Teano e dintorni fra’ Vito fu artefice di altri memorabili avvenimenti, fra cui quello della conversione di una pubblica peccatrice e quello, ancora più eclatante, di aver convinto il popolo della vicina Caiazzo ad abbandonare l’adorazione di Priapo, il dio della mitologia greca e romana simbolo dell’istinto sessuale e della forza generativa maschile, dopo averne frantumato a colpi di scalpello e martello - mettendo a rischio la propria incolumità fisica dalle intemperie di alcuni facinorosi adepti - un suo immondo simulacro per sostituirlo con un’immagine della Vergine.
Non di meno furono le attenzioni che fra Vito riservò agli ammalati di peste nell’epidemia del 1656 fino a quando «annichilato dalle penitenze e dalle fatiche continue, e grandi, che aveva intraprese con grandissima carità per servizio degl’infermi, nel principio che incominciò a incrudelire la peste, ed assalito anche egli da questo morbo, nel Convento di Sant’Angelo di Nola […] riposò nel Signore».

Franco Pezzella
(da Il Sidicino - Anno XXI 2024 - n. 4 Aprile)

Teano, chiostro del convento di S. Antonio da Padova