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Il ciclo pittorico di Francesco De Mura nel cappellone
di San Paride a Teano
 
Fig.1 - S. Paride che schiaccia il dragone
 

Come è noto, la cattedrale di Teano, dedicata a san Clemente, andò quasi completamente distrutta, alla pari di buona parte del cento storico della città, durante l’ultimo conflitto mondiale, in seguito alle incursioni aeree alleate del 6 e del 22 ottobre del 1943. Restò miracolosamente in piedi, insieme a poco altro, il solo cappellone di San Paride, che si apre, con una mola cilindrica, sul lato destro della nuova fabbrica ecclesiale, ricostruita tra il 1946 e il 1957 sotto la guida di Roberto Pane. L’oratorio era stato edificato tra la terza e quarta decade del Settecento su iniziativa del vescovo Giuseppe Martino del Pozzo per deporvi il corpo del santo, primo vescovo e Patrono della città, sino ad allora custodito nella cripta. Una fonte letteraria del tempo, la nuova edizione dell’Italia sacra di Ferdinando Ughelli, accresciuta e corretta da Nicola Coletti ed edita a Venezia tra il 1717 e il 1722, attesta, pur non riportando il nome dell’artefice, che per la costruzione del sacello fu preso a modello la seicentesca Cappella del Tesoro di San Gennaro a Napoli. Nei propositi del prelato il nuovo tempio doveva diventare, evidentemente, alla pari di quanto era accaduto per la cappella napoletana, una sorta di cappella-reliquario che accogliesse, con le spoglie di san Paride, anche quelle dei vari santi variamente conservate nella cattedrale teanese. Il buon prelato non ebbe, però, la ventura di vedere realizzato il proprio progetto - essendo improvvisamente deceduto nel 1722 mentre era ancora in corso l’opera - portata poi a compimento dai successori, Domenico Antonio Cirillo e Domenico Giordani. Una preziosa fonte archivistica, gli atti della Santa Visita compiuta nel 1753 da quest’ultimo pastore, che fu vescovo di Teano dal 1749 al 1755, ci fornisce una dettagliata descrizione del cappellone. Tra l’altro il documento ci ricorda, dopo una breve richiamo anch’esso alla Cappella del Tesoro di San Gennaro quale archetipo del sacello teanese, che il cappellone fu eretto al posto di un altare dedicato a san Lorenzo, che era tutto decorato a stucco e che le nicchie ricavate nei pilastri erano occupate, come lo sono tuttora, dalle statue in gesso delle sante Lucia e Giuliana Falconieri, e da quelle dei santi Urbano e Amasio (impropriamente indicato come san Liborio, benché correttamente identificabile, alla pari delle altre tre, da una scritta alla base), passati alla storia rispettivamente come secondo e terzo vescovo di Teano. Di più ci ricorda che furono altresì eretti tre altari - verosimilmente su una precisa direttiva del vescovo del Pozzo in fase di progettazione, dal momento che, oltre a san Paride, cui fu dedicato l’altare maggiore, i due altari laterali furono dedicati, con intenti dichiaratamente autoreferenziali, ai santi eponimi, ovvero a san Giuseppe, quello in cornu Evangelii, a san Martino di Tours, quello in cornu Epistolæ, Ma la testimonianza più importante che ci trasmette il documento è che questi altari erano decorati con tele di Francesco De Mura, tuttora in loco, giusto quanto è chiaramente indicato nel seguente passo:

Tria igitur altaria in hoc sacello existunt: majus Sancto Paridi est dicatum, illiusque apposita imago opus est Francisci de Muro, celeberrimi Francisci Solimenæ discipuli, cujus etiam sunt aliorum duorum altarium tabulæ

Trad.: Esistono dunque tre altari in questa cappella: il maggiore è dedicato a San Paride, e l'immagine a lui attaccata è opera di Francesco de Muro, discepolo del famoso Francesco Solimena, di cui sono anche le tavole degli altri due altari

Le tele in oggetto raffigurano naturalmente i santi titolari: san Paride nel Santo che schiaccia il dragone, san Giuseppe nel Riposo durante la fuga in Egitto e san Martino nel Santo che divide il mantello col povero.
Il soggetto della prima tela è tratto da una pia leggenda, di nessun valore storico, dove si narra che Paride, venuto in Italia dalla natia Atene per scampare alle persecuzioni, giunto a Teano da Napoli dove era sbarcato, si sarebbe scandalizzato nel vedere gli abitanti venerare un drago, ragion per cui, legatelo e trasportatolo nei pressi del fiume Savone, lo avrebbe ucciso schiacciandogli la testa con un bastone. Sul posto si sarebbe formata una sorgente d’acqua, simbolo della purificazione e della liberazione del popolo dal paganesimo. I teanesi, però, indispettiti per l’offesa recata alle loro credenze, avrebbero esposto Paride ai leoni affinché fosse sbranato, ma quando si sarebbero avveduti che le belve si erano inaspettatamente ammansite alla sua presenza, si sarebbero convertiti al cristianesimo; sicché papa Silvestro, informato dell’episodio, lo avrebbe eletto primo vescovo della città. Nel dipinto il santo, abbigliato con un saio bianco e un piviale giallo ocra foderato in azzurro, è rappresentato nell’atto di imporre un bastone sulla testa del dragone. Alle sue spalle un chierico, accompagnato da alcuni fedeli, regge un crocefisso, mentre ai suoi piedi, altri fedeli, inginocchiati, e alcune donne, una delle quali sembrerebbe rappresentare Tranquillina, la figlia del preside Sempronio delegata a portare al dragone il cibo quotidiano - evidenziato nel dipinto dai due pezzi di pane, dal pollo e dal piatto di minestra che, poggiati a terra su un panno rosso, si scorgono in primo piano - osservano, ammutoliti, la scena.
Il tema rappresentato sulla seconda tela, il Riposo dalla fuga in Egitto, è collegato, invece, alle poche righe del Vangelo di Matteo e alle tante dei Vangeli apocrifi, laddove si narra che Giuseppe e Maria, in fuga verso l’Egitto in groppa ad un asino per sottrarre il Bambino Gesù alla strage di tutti i neonati maschi dai due anni in giù ordinata da Erode nel territorio di Betlemme, stremati dal viaggio, si fermano per riposare qualche ora. La scena è centrata sulla figura di Giuseppe che, appoggiato all’asino, vestito di una tunica azzurra e di un mantello marrone, è nell’atto di contemplare e indicare il Bambino Gesù riposto su un panno bianco tra le braccia della madre, abbigliata con la tunica bianca e un mantello azzurro. Sovrastano la scena alcuni cherubini e due angeli che si librano in cielo reggendo un drappo rosso.
Al popolare tema dell’elemosina di san Martino, uno dei fondatori del monachesimo in Occidente nonché uno dei primi santi martiri proclamati dalla Chiesa, è ispirato, infine, la tela con cui si chiude il ciclo demuriano. Un’antica leggenda, redatta forse quando era ancora vivo, riporta che Martino, figlio di un ufficiale romano e soldato egli stesso della guardia imperiale a cavallo di stanza in Gallia, un giorno d’inverno, alle porte di Amiens, avendo scorto un povero, che, nudo e tremante per il freddo chiedeva aiuto ai passanti, divise in due con un colpo di spada il suo mantello e gliene porse la metà. La notte stessa, Martino ebbe la visione di Gesù che gli riportava il pezzo mancante del mantello indicando in lui, agli angeli che lo accompagnavano, l’identità di colui che lo aveva coperto; e tale fu il suo stupore la mattina successiva nel risvegliarsi e ritrovare il suo mantello di nuovo intatto, che da quel momento, ancorché fosse già di fede cristiana ma non ancora battezzato giacché la condizione di soldato glielo impediva, decise che di lì a poco, completato il percorso catecumenale, lo avrebbe fatto per dedicare il resto della sua vita al Signore. Le fonti storiche ci informano infatti che, lasciato l’esercito nel 356, fu prima ordinato esorcista, poi prete e infine, nel 371, vescovo di Tours, non mancando, nel frattempo, di fondare a Ligugé una comunità di asceti, considerata la prima comunità monastica europea e il monastero di Marmoutier, nei pressi della città. Conformemente all’iconografia corrente nella tela teanese san Martino, vestito di bianco e verde oliva, in groppa ad un cavallo pezzato è raffigurato mentre divide il mantello con il povero. In alto, alcuni angioletti assistono alla scena.
Un’ultima annotazione per evidenziare che in un saggio sulla collezione dei Ruffo a firma di Mario Alberto Pavone apparso nel 2012 su una pubblicazione a più mani avente a tema il collezionismo e politica culturale nella Calabria vicereale, borbonica e postunitaria, il compianto storico dell’arte aveva giustamente collegato alle tre pale di Teano le «macchie [...] con la cornice nera a tre ordini d’oro, di palmi 3 e 2», con «S. Martino che si taglia la vesta», «S. Paride che ammazza un serpente» e «il viaggio della SS. Vergine in Egitto», menzionate sotto il nome di De Mura nell’inventario dei quadri redatto nel 1747 per il testamento di Guglielmo Ruffo, principe di Scilla, reso noto, sin dal 1898, da Eustachio Rogadeo di Torrequadra. Di questi bozzetti, se ne ignora ancora, purtroppo, la collocazione.

Franco Pezzella
(da Il Sidicino - Anno XX 2023 - n. 11 Novembre)

Fig.2 - Riposo dalla fuga in Egitto
Fig.3 - S. Martino divide il mantello con il povero