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L'Allegoria del Sangue di Cristo: un prezioso dipinto di
Nicola Peccheneda nella collegiata di Galluccio
 

 

La terza cappella della navata destra (la sinistra per chi guarda l’altare) della collegiata di Santo Stefano a Galluccio, dedicata al SS. Sacramento, conserva, sulla parete che sovrasta il settecentesco altare in marmi policromi, una tela, dal soggetto chiaramente allusivo al sacrificio eucaristico, che mostra Cristo risorto nell’atto di apprestarsi a dilatare con il pollice della mano destra la ferita - infertagli, secondo il racconto evangelico di Giovanni (19, 34) nel costato dal soldato romano per accertarne la morte quand’era ancora sulla croce - allo scopo di far zampillare il proprio sangue in una sottostante ampolla eucaristica sorretta da un angelo. La raffigurazione evoca un’iconografia nata in età medievale nel mondo bizantino e importata in Occidente tra la fine del XIII secolo e gli inizi del secolo seguente, che in area italiana trova le prime formulazioni su un reliquiario conservato nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, nonché in una tavola del perugino Bernardino Mariotto, in collezione privata, e in alcuni dipinti di Giovanni Bellini (National Gallery, Londra), di Vittore Carpaccio (Museo Civico, Udine) e di Carlo Crivelli (Museo Poldi Pezzoli, Milano). Nelle rappresentazioni tardomedievali a reggere il calice era però generalmente raffigurato Adamo, sostituito solo in seguito da uno o più angeli, isolati o talvolta - invero molto raramente - affiancati da santi e/o devoti. Tuttavia, è solo più tardi, in epoca controriformata, tra la seconda metà del Cinquecento e i primi decenni del secolo successivo, che questa iconografia si diffuse più rapidamente, grazie ad un’improvvisa e inaspettata fortuna arrisa alle numerose edizioni del De Imitatione Christi - un importante trattato quattrocentesco di sapienza cristiana presumibilmente redatto, secondo la maggior parte degli studiosi, da un monaco agostiniano tedesco, Thomas da Kempis, al secolo Thomas Hemerkern, per la formazione dei confratelli - nel quale, secondo un concetto già insito nel sacramento stesso dell’eucarestia, al sangue versato da Cristo sulla croce, veniva attribuito il potere della remissione. Peraltro il culto per il sangue versato da Gesù per la salvezza dell’umanità era già praticato ai primordi dell’era cristiana, fin da quando, secondo la tradizione, Longino, il soldato che aveva trafitto con la lancia il costato di Gesù crocifisso, convertitosi, lo avrebbe raccolto in un vaso e trasportato in Italia dove si sarebbe fermato a Mantova nel 37 d. C., sotterrando la preziosissima reliquia in una piccola cassetta di piombo, dove oggi sorge la basilica di Sant’Andrea. Particole della reliquia, ritrovata nel 804, si conservano oltre che in due vasi della chiesa mantovana, nella Sainte-Chappelle di Parigi, nella chiesa di santa Croce a Guastalla, nella basilica di San Giovanni in Laterano a Roma e nell’abbazia di Weingarten.
In piena aderenza al periodo storico e all’ambiente artistico in cui fu prodotta - la Napoli della seconda metà del Settecento ancora permeata dalla cultura artistica neobarocca solimenesca sia pure già contaminata dal neoclassicismo dei vari De Mura, de Caro, Mondo e Celebrano - la tela in oggetto, leggermente centinata, ci propone un’immagine di Cristo a torso nudo, che delineata da un accurato contorno grafico teso ad esaltarne la celeste sottostante veste arricciata e i capelli inanellati, si rivolge, in una sorta di muto colloquio, con il volto sereno e luminoso, terso dai segni della sofferenza, all’angelo inginocchiato ai suoi piedi - parimenti paludato come il Signore da increspate e coloratissime vesti - per invitarlo al pio gesto di raccogliere il suo sangue. La scena si svolge ai piedi del sarcofago che aveva accolto il corpo di Gesù dopo la crocifissione; unica altra presenza quella di una coppia di cherubini che osserva l’evento in alto a sinistra con l’aria di chi sembra annunciare al mondo, con velato stupore, che la salvezza è compiuta e Cristo sta per salire al cielo.
Ancorché non firmata, né datata, la tela si può abbastanza agevolmente attribuire, (come ritenne, peraltro, a suo tempo, Rosa Montella, in un’esposizione di opere d’arte restaurate dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Caserta e Benevento tenutasi nella reggia di Caserta nella seconda metà degli anni’90 del secolo scorso), a Nicola Peccheneda, un pittore originario di Polla (dove era nato nel 1725), a lungo attivo, per buona parte del Settecento e i primissimi anni del secolo successivo, in Campania e Basilicata: lo suggeriscono alcuni stringenti raffronti stilistici con altre opere del pittore; viepiù le corrispettive tele prodotte dall’artista (sia pure con qualche variante iconografica come la presenza di santi o le diverse pose assunte dagli angeli), per la chiesa di Santa Caterina a Caggiano, per la chiesa della SS. Pietà a Teggiano e per la chiesa di San Nicola a Petina.
Dopo un proficuo periodo di apprendistato a Napoli - svoltosi verosimilmente prima presso il Solimena e poi nello studio bottega di Francesco De Mura, uno dei maggiori epigoni del maestro di Serino - Nicola Peccheneda ritornò ben presto nella sua terra natale, per dare corso ad una sua iniziale attività in autonomia, di cui si conosce ancora poco, che registra quale suo primo e unico intervento ad oggi noto una perduta tela del 1756 raffigurante San Donato di Ripacandida per la chiesa conventuale di San Francesco ad Auletta. Al successivo vuoto documentale di circa quindici anni, interrotto soltanto dall’attestazione, tra il 1758 e il 1759 di una sua collaborazione con Giovan Battista Rossi nella realizzazione delle grandi tele per la cappella Montalto in Santa Maria del Popolo agli Incurabili a Napoli, fanno seguito una lunga serie di commesse, costituite da opere singole o da vasti cicli pittorici per numerose chiese del Cilento e del Vallo di Lauro (ad Altavilla Silentina, Buccino, Polla, Atena Lucana, Caggiano, Giffoni Valle Piana, Padula, Petina, Sassano, Sant’Arsenio, Teggiano, Vibonati e Romagnano al Monte), della Basilicata (a Brienza, Brindisi di Montagna, Capomaggiore, Cirigliano, Marsico Nuovo, Maratea, Tolve e Melfi) e del Casertano (Marcianise). Un corpus pittorico a ben vedere molto consistente, compitamente illustrato negli ultimi decenni dagli scritti delle storiche dell’arte Antonella Cucciniello, Nadia Parlante e Anna Grelle Iusco, che gli procurò non pochi attestati di stima da parte degli artisti dell’epoca e dei conterranei, i quali, nel 1798, sei anni prima che morisse, lo celebrarono eleggendolo sindaco della propria comunità.

Franco Pezzella
(da Il Sidicino - Anno XIX 2022 - n. 10 Ottobre)