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Il controverso ritratto di Antonio Barattuccio,
insigne giurista teanese del Cinquecento,
in una coeva pala d'altare
 

Stemma della famiglia Barattuccio
 

Il più notevole degli esponenti dell’antica e nobile famiglia dei Barattuccio o Barattucci, una delle casate più in vista nella Teano del Quattrocento fu senza dubbio Antonio, nato nel 1486, il quale, nel solco della tradizione familiare, fu ben presto mandato a studiare giurisprudenza a Napoli, dove, laureatosi giovanissimo, si diede ad esercitare l’avvocatura presso il foro di città. Messosi subito in luce per le sue doti, nel 1523, quando contava appena trentasette anni, fu chiamato, per un biennio, a occupare il posto di giudice della Gran Corte della Vicaria, la suprema magistratura criminale del Regno di Napoli; mandato che, come vedremo, gli fu rinnovato, una seconda volta, nel 1532.
Tra un esercizio e l’altro fu incaricato, tra l’altro, di condurre, per conto della commissione inquirente nominata da Carlo V, un’inchiesta sullo stato catastale del Molise e di alcune zone della Terra di Lavoro al fine di colpire i feudatari che si erano schierati con i francesi durante l’invasione del Regno da parte dell’esercito del Lautrec nel 1528. Dipiù, venuto nel Regno il viceré don Pedro de Toledo a completare l’opera di restaurazione monarchica, il Barattuccio, diede un ulteriore prova della sua fedeltà al regime assolutistico, contribuendo a contenere, per le sue competenze, i moti popolari scoppiati allorché il Toledo «non pago di domare i baroni, fece sentire il suo pugno pesante sui patrizi, la città e il popolo» come ebbe a commentare Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, edita dalla Laterza di Bari nel 1925.
La partecipazione a queste operazioni, che diedero un colpo mortale alle velleità antimonarchiche dei feudatari ribelli, impresse anche una svolta fondamentale alla carriera del Nostro, il quale si vide rinnovare non solo il mandato di giudice della Gran Corte, ma assegnato anche quello, nel 1538, di avvocato del Fisco, un’importante figura di ufficiale pubblico, nata fin dai tempi dell’imperatore Adriano, che difendeva in giudizio gli interessi dello stato. In questa veste il Barattuccio si distinse particolarmente nell’istruire il processo intentato dal Toledo contro il luogotenente della Sommaria, il dotto Bartolomeo Camerario, al termine del quale, nel 1547, l’illustre giurista fu condannato al risarcimento dei danni provocati al pubblico erario, bandito dai pubblici uffici e deportato.
Nonostante il buon esito della vicenda giudiziaria del Camerario avesse rafforzato considerevolmente la posizione del Nostro agli occhi del viceré, questi, nello stesso anno, non esitò a farlo imprigionare, sia pure per un breve periodo, allorché, nel tentativo di introdurre nel Regno l'inquisizione a modo di quella spagnola, se lo ritrovò, con altri funzionari della macchina amministrativa, tra gli avversari. La disavventura non intaccò, tuttavia, il prestigio del Barattuccio. Prova ne è che il futuro cardinale Giulio Antonio Santorio, nel 1553, gli dedicò un suo trattato e che alcune sue glosse alle consuetudini napoletane furono raccolte, insieme a quelle di altri autori, e successivamente stampate, nel 1567, dopo la sua morte, da Camillo Salerno nel suo Consuetudines Neapolitanae cum glossa Napodani.
Ma il riconoscimento più gratificante ma anche più controverso per il Barattuccio fu quello tributatogli dal pittore pistoiese Leonardo Grazia, che lo inserì, nei panni del profeta Simeone, in compagnia di altri illustri personaggi del tempo, nella Presentazione di Gesù al Tempio che compose, tra il 1544 e il l545, per l’altare maggiore della chiesa napoletana di Sant’Anna dei Lombardi, poi rimossa già l’anno successivo su suggerimento di Giorgio Vasari per sostituirla con un suo analogo dipinto «di nova invenzione». La sostituzione della pala, ora nelle collezioni della Pinacoteca di Capodimonte, si rese necessaria secondo la testimonianza del medico, botanico e letterato venosino Bartolomeo Maranta, in quanto era sembrato sconveniente la presenza in un dipinto sacro di ritratti di contemporanei, in particolare proprio quello di Barattuccio, il quale «in quel tempo, essendo egli avocato fiscale, interveniva a dar fune, fuoco, ceppi et altre sorti de tormenti. Facea scopare, strascinare, impiccare et altre specie di pene, et ancor che fusse di aspetto venerando per quella gran barba canuta, nondimeno era per crudel uomo tenuto, e non per misericordioso, come richiedeva la grandezza del misterio.
La levorno dunque quei buoni padri dal maggiore altare e da Giorgino di Arezzo [Giorgio Vasari] feciono farvi quell’altra che ora vi sta». (Discorso all’Ill.mo Sig. Ferrante Carrafa Marchese di Santo Lucido in materia di pittura. Nel quale si difende il quadro della cappella del Sig. Cosmo Pinelli fatto per Titiano, da alcune oppositioni fattegli da alcune persone in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di Paola Barocchi, Milano 1971, I, pp. 863-900, a pag. 885). Più tardi il canonico Carlo Celano, autore di un’accurata descrizione dei monumenti di Napoli alla fine del Seicento, aggiunse che sarebbe stato lo stesso Vasari, ovviamente per motivi di opportunità, a dare «ad intendere ai padri che era molto sconvenevole che nel quadro del maggiore altare di una chiesa così nobile e frequentata vi si riconoscessero nella Vergine un volto d’una dama così nota et in quello di san Simeone un avvocato fiscale di Vicaria» (Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli [...], [Napoli 1692], con Aggiunzioni di Giovan Battista Chiarini, Napoli 1856-1860, III, II, p.319).
Per il resto gli altri personaggi raffigurati nel dipinto erano (e sono): la mitica Lucrezia Scaglione, donna bellissima scelta per il corteggio a Carlo V in occasione del suo ingresso a Napoli, nei panni della Vergine; Diana Di Rago, una altra bellissima dama del tempo, in quelli di una delle donne che l’accompagnano; del vescovo di Caiazzo Lelio Mirto, Cappellano Maggiore del Regno; di Gabriele Altilio, vescovo di Policastro, e del monaco sacrestano della chiesa di Sant’Anna. In realtà, pare - secondo l’interpretazione di alcuni storici moderni, anche a motivo della «scarsa caratterizzazione dei volti, tipica d'altronde di Leonardo Grazia» (Pier Luigi Leone de’Castris) - che la sconveniente (o presunta tale) presenza di contemporanei nel dipinto biasimata dal Vasari, fosse nulla altro che un astuto espediente verbale del pittore, già attivo, peraltro, nella realizzazione degli affreschi del refettorio dell’attiguo convento (ora sagrestia della chiesa), di accaparrarsi anche la commessa del nuovo dipinto da porsi sull’altare maggiore della stessa.
In ogni caso, nonostante lo sgarbo subito dagli olivetani, resosi complici del Vasari, il Barattuccio negli ultimi anni della sua esistenza non si allontanò dagli ambienti di questo Ordine che aveva preso a frequentare da qualche anno forse per una convinta adesione «a quel moto controriformistico improntato a profonda pietà e ad una austera spiritualità, ma alieno da rigorismi ed estremismi» - per dirla con Giuseppe Galasso (Dizionario biografico degli Italiani, ad vocem) - che i monaci andavano propugnando da qualche tempo. Non fu per caso quindi che, quando il 9 maggio del 1561 Antonio Barattuccio rese l’anima a Dio, ricevesse sepoltura, forse per sua espressa volontà, nella cappella di famiglia che - fondata nel 1430 dal suo avo Antonello de Filippo nella stessa chiesa e in seguito, nel 1516, indebitamente assegnata con il pertinente ius patronato agli Artaldo - si sviluppava nella navata destra davanti all’antico coro.
Più tardi, nel 1568, allorquando i religiosi acconsentirono ai Barattuccio di recuperare l’antico ius sepolturæ della famiglia nella nuova cappella, che intanto gli Artaldo avevano fatto edificare nella navata sinistra dopo la ristrutturazione del tempio, Giovan Camillo Barattuccio - erede nell’usufrutto del cugino Fabio, figlio di Antonio, morto nel 1564 - commissionò a Giovano Domenico D’Auria un sepolcro, quello stesso oggi sistemato, dopo un ennesimo rifacimento delle cappelle, sulla parete sinistra del presbiterio, in alto a destra, nel quale oltre alle spoglie del cugino e della moglie Violante Moles, raffigurati giacenti, l’uno in una scultura a tutto tondo, l’altra in buona parte anche ad altorilievo, fece riporre quelle dello zio Antonio e della moglie Beatrice Martino.

Franco Pezzella
(da Il Sidicino - Anno XIX 2022 - n. 2 Febbraio)

 
Leonardo Grazia, Presentazione di Gesù al Tempio - Napoli, Pinacoteca di Capodimonte
 
Napoli, Chiesa di S. Anna dei Lombardi
G.D. D’Auria, Monumento sepolcrale dei Barattuccio