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L'arte negata: L'Incredulità di S. Tommaso
di Vairano Patenora
 
 

Fino al 1964, quando fu rimossa dall'allora Soprintendenza alle Gallerie della Campania per essere sottoposta ad un improcrastinabile restauro, nella chiesa di San Tommaso, ubicata presso il castello nell'antico borgo medievale di Vairano Patenora, era ancora visibile un'interessante tavola, con sottoposta predella e piedritti, raffigurante l'Incredulità di san Tommaso, che, datata 1586 e già parte di una cona andata perduta collocata sull'altare maggiore, è attualmente conservata nella reggia di Caserta, dove era stata successivamente trasferita, nel 1995, per entrare a far parte dell'allora costituendo Museo dell'Opera e del Territorio, rimasto aperto al pubblico per qualche anno e poi dismesso.
La tavola raffigura Cristo portacroce con alla sinistra san Tommaso nell'atto di mettere un dito nella piaga del suo costato, e a destra san Marco Evangelista, identificabile per il libro che regge con la mano sinistra e per il leone prostrato ai suoi piedi. La sottostante predella accoglie, invece, due riquadri raffiguranti: l'uno, quello a sinistra di chi guarda, l'Ultima Cena; l'altro, quello a destra, Gesù nell'orto degli Ulivi. È completamente scomparso, purtroppo, fatta salva la data 1586 emersa nel corso del restauro, il brano che occupava il riquadro centrale. Sopravvivono, viceversa, sui piedritti che reggevano le colonne della cona, le raffigurazioni di due stemmi di cui, quello a sinistra, relativo alla locale confraternita del Sacramento, come denuncia la rappresentazione di un calice.
L'episodio dell'incredulità di san Tommaso è riportato dal Vangelo di Giovanni (20, 19-31), laddove l'evangelista narra che dopo l'apparizione di Gesù risorto agli apostoli, che si erano nascosti nel Cenacolo per timore di essere arrestati, Tommaso, detto anche Didimo (gemello), non presente al momento dell'apparizione e scettico che Gesù morto fosse realmente apparso loro, affermò che avrebbe creduto soltanto se avesse messo un dito nella piega del suo costato «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi [...] e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» aveva detto. Otto giorni dopo Gesù apparve di nuovo agli apostoli e avvicinatosi a Tommaso gli disse: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Al che Tommaso, costernato, esclamò: «Mio Signore e mio Dio!». E Gesù, di nuovo lo apostrofò: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».
Gli artisti che fin dal XIII secolo e nei secoli successivi (da Duccio di Boninsegna a Caravaggio, per citare solo i maggiori), si sono cimentati nella rappresentazione di questa scena evangelica - peraltro sempre molto caldeggiata dalla committenza ecclesiale perché, in ossequio a quella che è una delle principali funzioni dell'arte sacra, ribadisce uno dei cardini della dottrina cristiana, la Resurrezione - l'hanno raffigurata, per lo più, salvo rare occasioni, nel contesto dell'apparizione di Gesù a tutti o ad alcuni gli apostoli nel Cenacolo. Non è il caso, invece, della tavola di Vairano Patenora dove la scena si svolge in un contesto non meglio definito, al cospetto del solo san Marco (come già si preannunciava), di una schiera di cherubini e di un angelo raffigurato nell'atto di raccogliere in un calice il sangue che gronda dal costato di Cristo, ai cui piedi, sparpagliati, si distribuiscono alcuni degli oggetti usati per la sua crocifissione. In questa evenienza la tavola si prefigura, per di più, anche come una rappresentazione del raro tema iconografico dell'Allegoria del sangue di Cristo, una potente simbologia del valore salvifico dell'Eucarestia che si diffuse nell'Europa del Quattrocento e del secolo successivo attraverso un'incisione che illustrava il De Imitatione Christi, un importante trattato di sapienza cristiana redatto appositamente per la formazione dei confratelli da Thomas da Kempis un monaco mistico tedesco. La scelta iconografica della tavola vairanese fu verosimilmente mediata dai membri della confraternita del Sacramento che era stata fondata nel 1505 forse proprio in concomitanza con l'edificazione della chiesa.
Quanto all'autore della cona, in assenza di documenti che ne accertino la sicura paternità, i pochi studiosi che se ne sono interessati l'hanno individuato nell'ambito della bottega napoletana di Teodoro d'Errico, nella fattispecie in quel Francesco Curia che ne fu il più valido esponente prima di emanciparsi e affermarsi come il più virtuoso pittore napoletano del Cinquecento. Se proprio si tratta di un dipinto del Curia - ma ne siamo poco persuasi, oltre che per il suo spiccato aspetto devozionale, per le scelte cromatiche e la resa cromatica - ci troviamo sicuramente in presenza di una delle sue prime realizzazioni, le quali, a giudicare dalla sua produzione fin qui nota e certa, si presentano sempre animate da personaggi inseriti in contesti naturalistici o architettonici di raffinata esecuzione, realizzati con l'uso di pennellate fluide e cangianti; con stilemi, dunque, molto, ma molto lontani, da quelli che s'intravedono nella tavola di Vairano Patenora. Assai più verosimilmente, invece, l'ignoto autore sembra appartenere alla cerchia degli epigoni di Marco Pino, l'altro grande protagonista della pittura napoletana del Cinquecento, al quale spetta, peraltro, il merito di aver importato il tema del Cristo portacroce a Napoli e in Italia meridionale, di cui il dipinto di Vairano Patenora resta, al di là di qualche limite e qualche incertezza, uno dei più interessanti raggiungimenti, ben meritevole di essere meglio conosciuto ed apprezzato.

Franco Pezzella
(da Il Sidicino - Anno XVII 2020 - n. 8 Ottobre)

La tavola nella sua attuale collocazione presso il Museo Diocesano di Teano (foto Mimmo Feola)