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Il malocchio
 

Sull’argomento mi piace qui riportare un’osservazione del grande filosofo Schopenauer “… si resta sbalorditi leggendo ed osservando, della ostinazione, della costanza che, malgrado tante avversità e disinganni, l’umanità ha dimostrato in tutti i tempi e in tutti i luoghi, nel perseguire l’idea della magia …si deve concludere che tale idea è profondamente radicata nella natura umana. La iettatura secondo la superstizione popolare è forza malefica che si sprigiona dagli occhi di determinate persone e la si ietta su qualcuno. Iettatore: voce di origine meridionale che ha lo stesso etimo dell’italiano gettare; a costui si attribuisce il potere, anche con la sua sola  presenza ed a volte inconsapevolmente, di esercitare la iettatura ovvero di portare sfortuna. La credenza nel potere nefasto degli occhi era largamente diffusa tra i popoli, si credeva di conoscere gli occhi nocivi da alcune loro caratteristiche: macchie nell’iride, sopracciglia concresciute, occhio piuzo, si pensava addirittura di poter scorgere nell’iride del malcapitato l’immagine dello iettatore. Il malocchio, quindi sembra essere originariamente collegato ad un potere magico attribuito ad uno sguardo desideroso o invidioso del bene altrui. Ed è in questa accezione di invidia che i Latini, come sempre, nella loro essenzialità indicano il malocchio con invidi in cui in con video ha valore avversativo (guardare male o guardare storto). Larga è la credenza nel malocchio e diffusi sono i rimedi apotropaici, vale la pena di citarne uno per tutti, da sempre anche in versione di metalli preziosi: il corno che tutti accarezzano all’occorrenza e che altro non è che la reminiscenza classica dell’esibizione fallica di Priapo segno della fertilità della natura. Quale rimedio cristiano  contro il malocchio è interessante, per il suo significato antropologico, la funzione che si attribuisce, soprattutto nell’Italia meridionale, all’abitino magico che per essere tale deve essere battezzato, per cui viene fatto indossare al bambino all’atto del battesimo. Si riteneva che far uscire il bambino prima di questa occasione fosse rischioso perché quale essere indifeso potesse essere soggetto alle molte fascinazioni del mondo.
Molti sono i rimedi per sciogliere il malocchio in forma di parole, ma spesso non sono altro che ingenue filastrocche, anche se accoppiate a qualche simbolo, ed hanno solo il pregio di fare simpatiche rime: “Alberu che nun mini frutto, feuce che nun mini sciore leveme stu relore”; “Te ri sciogliu ra la capu a ru pere, chi ta fattu male tadda fa lu bene, uocci contruocci schatta maluocci, uocci contruocci crepa maluocci; oppure “Dui me vanno contro (lo iettatore e il demonio) e tre ‘nfavore: lu patre,  lu figliuolu e lu spiritu santu. Angiuli santi , manu manca, uocci accrisci e ficu ammanca.”. Questa che si riporta appresso, invece, anche se ripetuta meccanicamente da secoli senza conoscerne il senso, è interessante: “Maria eva pe la via e sconta Funé – Funé addu vai? – rent’a ciocca re cristianu – Funé ota pe nata via.”. Forneus è uno dei 72 demoni che si possono individuare nella demologia cristiana, il significato in sostanza è questo: s’invoca la Madonna di liberare la mente del malcapitato dall’influenza del demone. Pare che lo scioglimento del malocchio, per chi se ne intenda, al di là dei simboli, individui la forza della riuscita della funzione nell’intenzione, nella forza del pensiero e nell’imposizione delle mani. Un atteggiamento taumaturgico, quest’ultimo, che attraverso miti e rituali ritroviamo sia nelle pratiche religiose che magiche, ad opera di profeti e guaritori, di sacerdoti e saggi di ogni tempo: mano tese che si impongono sulle teste, che toccano per guarire, che confortano e danno sollievo, e che a volte miracolano.
Da qualche anno ho superato la soglia dei “cinquanta” perciò da ragazzo ho avuto modo di curiosare un po’ in questo mondo di “ngiarmi”. A quei tempi il medico non era il primo referente per i malanni che sopraggiungevano, soprattutto nelle campagne: dapprima si aspettava che il male facesse il proprio corso, si sperava e soprattutto si pregava; la seconda tappa era quella di rivolgersi a qualche vecchia matrona che sciogliesse il malocchio o ngiarmasse il dolore, quest’ultima cosa era praticata anche dagli uomini (i magoni). Nei casi estremi si pensava al medico che spesso non si sapeva come contattare per la totale mancanza dei mezzi di trasporto, in rarissimi casi (come le mosche bianche) compariva il dottore con uno sciarrabballo portato a spasso da uno stanco cavallo. Di queste rarissime visite due cose non ho più dimenticato: le scarpe bianche e nere, come smaltate, del dottore che quando camminava scrocchiavano vistosamente e quel triste penzolare di una coppia di giovani galli di primo canto dal campierto del calesse che se ne tornava per la polverosa carrerra da dove era venuto.
Quando ero poco più che un ragazzo ebbi modo di entrare in confidenza con una di queste anziane donne che scioglievano il malocchio ed un po’ per simpatia un po’ per la mia insistente curiosità, un bel giorno decise di mettermi a parte delle orazioni che recitava durante la funzione. La cosa mi fu trasmessa con grande solennità nel periodo natalizio e con la promessa di non trasmetterla mai se non sinceramente richiesta. Vi era un punto dell’orazione che la praticante viveva così intensamente che a volte sbiancava, era quello che chiamavano il momento dell’intenzione. Dopo la funzione sembrava stanca e sospirando, come se lo dicesse a se stessa, “… coppa a sta terra sadda crere a bene e male”. Alcune di queste matrone avevano veramente carisma, incutevano rispetto ed i loro occhi che ne avevano viste tante erano buoni, il rito più comune era lo scioglimento del malocchio da mal di testa, senso di vomito ed inappetenza: imponevano la mano sulla testa col pollice sulla fronte che disegnava  tre volte il segno della croce, alla fine della terza croce dicevano un’orazione; dopo prendevano un piatto ove vi si versava un po’ d’acqua con una brocca, imponevano la mano sul piatto e col pollice rifacevano per tre volte la croce, in un cucchiaio si versava un po’ d’olio d’oliva ove intingevano l’indice e contemporaneamente si recitava l’orazione di prima, ad un preciso punto dell’orazione si lasciava cadere qualche goccia d’olio che a volte si espandeva quasi a scomparire, altre volte restava sull’acqua, si ripeteva  l’orazione per tre volte ed ogni volta a quel preciso punto dell’orazione si lasciava ricadere qualche goccia d’olio che poteva scomparire o rimanere a galleggiare sull’acqua. Il malocchio si considerava sciolto quando le gocce d’olio non squagliavano più. Non so dire come mai lo stesso olio nella stessa acqua a volte si scioglieva e a volte no, ciò potrebbe essere argomento per un articolo di taglio diverso. Con i miei occhi ho visto qualcuno che dopo la funzione se ne andava risollevato dai disturbi sofferti e con il ritornato appetito.
Vi erano poi gli ngiarmi fatti dal magone che era uno stregone buono che rifuggiva di mettere in opera i suoi “doni naturali”, curava i dolori del corpo i malanni più gravi. Ricordo un amichetto di giochi che soffriva di forti dolori alle gambe, a volte mentre giocavamo si fermava di colpo e si rannicchiava per terra, dopo un po’ gli passava e riprendevamo a giocare, mi confidava che a volte la notte sognasse di essere portato a canacuoscio (cavalcioni)  in modo così malconcio come se qualcuno gli torcesse i testicoli e si svegliava con forti dolori ai genitali. Ricordo, anche, che i medici non riuscirono a togliergli i disturbi e si parlò di ricoverarlo in un ospedale perché doveva fare i raggi x. Così un giorno il suo vecchio nonno, agli inizi di un’estate, ci invitò ad andare con lui da un suo amico che era un magone. Il sole era già alto nel cielo, il vecchio, mentre ci faceva strada, si appoggiava ad un bastone, noi lo seguivamo fra i viottoli in mezzo al grano altissimo ed ormai maturo, ogni tanto strappavamo i fiori di “suca mele” che contendevamo alle api per succhiarne il nettare che usciva dai fiori violetti ed aveva un sapore gradevolissimo, ogni tanto zompavamo (saltavamo) al di sopra del grano per renderci conto di dove ci trovassimo ed eravamo eccitati della gita. Alla fine delle messi ci comparve davanti un casolare di tufo grigio con l’unico locale a cera a sole (vale a dire senza solaio), ma con più di una caprettera intorno. Il vecchio lo chiamò Salvaturiegliu: era intento a mungere una capra, era una sorte di omone, aveva scarpe di cuoio di quelle chiodate con le centrelle ed i lacci di curriuoli (fatti con la pelle dei prosciutti di maiale essiccati), dei lunghi calzettoni di lana fermati sopra i calzoni da strisce di stoffa, una giacca di velluto e dei capelli, nonostante la sua veneranda età, nerissimi tutti appiattiti in testa come se ci avesse passato sopra della sugna, gli pendeva un grosso anello da un orecchio. La ngiarmatura non fu particolarmente solenne, ricordo le sue mani che s’imponevano sulle gambe e sulle cosce del mio amichetto come se cercassero i nervi o le vene, recitava velocemente delle cantilene. I saluti fra i due vecchi  furono affabili, si scambiarono qualcosa e si rassicurarono. Prima che le nostre strade si dividessero, io e quel ragazzo, restammo ancora in contatto per qualche tempo, i dolori alle gambe non gli vennero mai più, invece il magone non risolse del tutto, per il poverino, il problema dei testicoli, pare che lì c’entrassero le Janare e lui, il magone, non era attrezzato per contrastarle, loro erano di una specie rognosissima.

Carlo Antuono
(da Il Sidicino - Anno VI 2009 - n. 2 Febbraio)