TEANO
 
Tradizioni
 
Canti popolari
 
Pipino il Breve e Federico II nei nostri canti popolari
 

È’ interessante osservare come alcune “culture popolari” si siano tramandate per secoli senza alcuna testimonianza scritta, ma soltanto con il passaggio orale di generazione in generazione; ed è oltremodo singolare scoprire che attori di queste storielle coincidono a volte, con importanti personaggi storici.
Riporto qui due simpatiche cantilene con cui s’intrattenevano i bimbi fin dall’ottavo secolo:

Pizzi pizzi tranculu
e ru sciore re santranculu
e santranculu e Pipino
e ru sciore re Serafinu
Serafinu facea lu pane
eunu e mosche e se lu mangiaunu
pallarò pallarò…
iesci fore a stu curtigliu
pane nuci e pecuriegliu.

Iesci iesci sole
scalenta  ‘mperatore
scannetiegliu miu r’argientu
ca vale quattucientu.
Cientu cinquanta
canta viola
ru mastu re scola.
Oi mastu oi mastu
mannacenne priestu
ca scenne mastu Tiestu
ra gli ‘auciegliu accumpagnatu.

Pipino, che compare nella prima filastrocca, è nome proprio di persona che si ritrova in alcune espressioni proverbiali con le quali si allude ad uno degli antichi re con questo nome: “Me pari nu re pipino” per dire – mi sembri uno che vuole essere servito e riverito – oppure “Ai tiempi re re Pipino” per citare un avvenimento accaduto tanto tempo fa, quest’ultima espressione è autorevolmente riportata anche dalla “Treccani”. Dei molti re con questo nome che compaiono dal settimo all’ottavo secolo, per quanto riguarda la nostra filastrocca, forse, possiamo identificarlo in Pipino il breve figlio secondogenito  di Carlo Magno che dapprima si chiamava Carlomanno, poi, nominato re d’Italia, fu consacrato in Roma col nome di Pipino. Prese parte a molte campagne militari, diresse anche una spedizione, che ebbe come teatro d’operazioni i nostri territori, contro i Longobardi di Benevento e Capua.
L’Imperatore cui fa riferimento la seconda strofa è certamente lo “Stupor mundi” Federico II di Svevia
(1194 – 1250), imperatore del Sacro Romano Impero nonché illuminato Sovrano del regno di Sicilia. La terza strofa della seconda filastrocca interessantissima si apre con una invocazione fatta da discepoli / lavoranti al proprio mastro / maestro: … oi mastu oi mastu mannanecce priestu – mandaci a casa presto questa sera – ca scenne mastu Tiestu – che scende (dalla Germania) l’Imperatore – ra gli ‘auciegliu accumpagnatu – accompagnato dall’uccello. C. Cipriano in “Appunti di antico vernacolo” (Teano 1999), riprendendo una simile filastrocca da M. Camera  (“Annali del regno di Napoli”) ritiene che l’uccello sia l’aquila rappresentata sugli stendardi imperiali delle armate di Federico II. L’identificazione dell’uccello con “l’aquila unicefala nera, voltata a destra, rostrata e linguata di rosso” che rappresenterà il classico simbolo dell’impero per molti secoli, è verosimile anche se a quei tempi siamo ai primordi dell’araldica e l’uso delle insegne non era così frequente. Io azzardo un’altra ipotesi, più suggestiva ma che più facilmente abbia potuto impressionare l’immaginario comune di quei tempi. Il grande svevo, come si sa, è autore del DE ARTE VENANDI CUM AVIBUS, celebre trattato di ornitologia che ancora oggi è letto con profitto dagli ultimi cultori della caccia col falcone. Naturalmente lui era un grande appassionato della caccia con il falcone, che si esercitava in quel tempo: le cronache raccontano che egli provvedeva personalmente all’addestramento degli uccelli alla caccia. Il Sovrano era spesso in Terra di Lavoro, una delle zone in cui era stato suddiviso il Regno di Sicilia, per curare i molti interessi culturali e politici che aveva nella zona, infatti nella vicina Capua più di una volta convocò delle solenni “diete” per l’organizzazione del regno. Chi sa quante volte avrà attraversato la nostra regione o la limitrofa Capitanata col suo seguito a caccia con il falcone, entrando così nell’immaginario comune come l’Imperatore dall’uccello accompagnato.
Per il gusto del lettore mi soffermo un attimo su quel… mastu Tiestu, il mastro / artefice del coperchio che nella cantilena identifica l’Imperatore: nelle botteghe d’artigiani ove si forgiavano pentole, il coperchio era fucinato dal capo artigiano, dal maestro, dal rifinitore, dal comandante in capo. D’altro canto anche un proverbio non in vernacolo e conosciuto in tutta la penisola riprende suggestivamente l’argomento: “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, il coperchio è appannaggio di chi eccelle su tutti, ..mastu Tiestu.

Carlo Antuono
(da Il Sidicino - Anno IV 2007 - n. 2 Febbraio)