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Indice Fabio de Renzis
 
 

La collezione archeologica di Casa Renzi (de Renzis)

e la questione del busto di Annibale
 
(Fine)
 

NAPOLI - INIZIO XIX SECOLO

Nel generale entusiasmo acclamante che il ciclone napoleonico andava via via rinvigorendo nel napoletano ed in particolare a Napoli nei primi anni del nuovo secolo e soprattutto tra la nobiltà illuminata e la borghesia progressista in vista della eversione della feudalità (che per vero provocò nell'immediato ed in concreto più guasti che vantaggi), con la rivisitazione strutturale e funzionale della macchina amministrativa e giudiziaria, con la soppressione di una buona percentuale di sovradosati ordini religiosi (e conseguenti e salutari espropriazioni ed acquisizioni di beni da parte della nuova amministrazione), con la generale apertura insomma verso rosei promettenti orizzonti che il nuovo secolo sembrava disvelare alle aspirazioni di tanta parte del popolo, nonché della detta quota progressista della borghesia-aristocrazia, potevano ascoltarsi all'unisono parole di encomio e frasi inneggianti. Sempre diverse, ma sempre caleidoscopicamente uguali! Un osservatore attento però avrebbe potuto coglierne più di una chiave di lettura e scorgere un ampio e diversificato spettro intenzionale, cui quelle voci erano informate ed al quale erano parametrate. E si sarebbero appalesate voci autentiche, entusiastiche, calcolatrici, affaristiche, eleganti, volgari, coraggiose, vili. Ma tutte all'unisono inebriate da Napoleone, napoleonidi e relative innovazioni facenti giustizia di sperequazioni sociali fino ad allora considerate inamovibili. Anche perché passivamente ed acriticamente percepite come “naturali”.
Vi era però anche una parte non certo residuale sia del popolo napoletano (soprattutto nei primi anni di Giuseppe Bonaparte) sia della borghesia-aristocrazia che conservava dentro di sé un senso di appartenenza ad un luogo ad un governo e quasi ad una fede religiosa. Nel senso di fedeltà ad uno Stato: cioè ad un re, ad una patria ed appunto una religione. E quello stato quel regno era dei Borboni. Ai quali bisognava conservare senza dubbio fedeltà.
Ed anche Nicola de Renzis detto “o capitano” nutriva questa convinzione. Ma Nicola aveva un carattere non facile ed è verosimile che avesse qualche nemico. Sta di fatto che i suoi detrattori sostenevano che “o capitano” non era affatto intimamente fedele ai Borboni, come lasciava intendere e come proclamava a gran voce e che la sua ostinazione contro “l'invasore francese” (come egli soleva dire) era in realtà dovuta al ricordo della fine tragica toccata otto anni prima ad un altro de Renzis, anch'egli originario di Capua: il colonnello Leopoldo de Renzis. Che, ministro della guerra durante la repubblica partenopea, fu poi afforcato in piazza mercato, dopo la restaurazione borbonica. “O capitano”, dicevano le male lingue, non vuole fare la fine” d'o colonnello”!
Nicola de Renzis, che aveva un po' tralignato e non era doctor in utriusque jure come il “magnifico” padre don Francesco ed i suoi “magnifici” antichi avi, veniva chiamato “o capitano”, perché era stato in quegli anni nominato capitano di un drappello di dragoni urbani da lui vestiti, armati e pronti per essere posti al servizio del re. Cioè del Borbone cui, appunto, aveva prestato giuramento di fedeltà. Sentimento che egli intimamente sentiva. E sentiva di dover nutrire.
È opportuna a questo punto una breve digressione sulla organizzazione dell'esercito borbonico all'epoca dei fatti. Va detto, cioè, che una sorta di volontaria e virtuale implementazione della forza militare istituzionalmente attiva era possibile ancora in quegli anni da parte di un privato. Il quale si faceva carico delle relative spese: gli uomini erano vestiti, armati e mantenuti privatamente. In caso di guerra, però, il sovrano aveva diritto di disporne: una sorta di residuato inverso della medioevale adoa. Non è arduo, quindi, comprendere come – al di là del facile discrimine fra “buoni e progressisti” da un lato e “cattivi e reazionari” dall'altro che la storiografia ufficiale andrà poi agevolmente tracciando alla luce degli avvenimenti una volta appunto avvenuti e senza eccedere nei meandri dell'animo umano che una attenta analisi di introspezione psicologica porterebbe con sé – la posizione di Nicola merita qualche attenzione e qualche riconoscimento di valore. Ed è oggi (forse anche allora) del tutto comprensibile e paragonabile a quella di un militare “di ruolo”. Quel militare “tutto di un pezzo”, figura quasi antologica, il cui rigore morale impone il mantenimento strenuo del giuramento di fedeltà che anche al costo estremo della vita era stato a suo tempo “prestato”. La nobiltà di quel giuramento del resto (anzi) era proprio in funzione del prezzo altissimo che il suo rispetto – in alcune circostanze – avrebbe potuto comportare. Era quindi proprio il ricordo di quella antica promessa di fedeltà che (nella scenografica ambientazione della relativa militaresca funzione) egli aveva (non nei confronti del regnante di turno, ma “intuitus personae”) dato a Ferdinando IV di Borbone, che ostacolava l'accoglimento delle generiche promesse libertarie che lo vedevano ora virtuale destinatario di un qualche vantaggio. Per ottenere il quale egli avrebbe dovuto “tradire” il suo re! No! Non lo avrebbe mai fatto. Era proprio il ricordo di quella improvvisa ed adolescenziale sua ansia, di quel suo turbamento provocatogli dalla non agevole cerimonia della vestizione da capitano dei Dragoni, che lo rafforzava nella sua convinta fermezza. Il ricordo di quella cerimonia per la quale il padre Francesco gli aveva inviato due suoi “lacchè” esperti di nastri e fusciacche gli impediva di “modernizzarsi”, di guardare al futuro e non al passato, come qualcuno gli diceva. Era ancora e proprio il ricordo delle incredibili scaramucce tra i due (Crescenzo Tallone, che - lacchè “dello fino” - pretendeva con puntigliosa autoreferenzialità di dettare legge e Nicola Rafaele, “altro lacchè”, che non tollerava ruoli subalterni) a proposito della precisa altezza dei risvolti alle maniche o dei centimetri del colletto della camicia che dovevano essere visibili oltre il bavero che se da un lato lo inducevano al sorriso, gli sottolineavano con forza e dall'altro la austera rigorosa solennità di quella cerimonia. Che con evidenza doveva esprimersi anche attraverso un acribico forse lezioso, ma quasi liturgico perfezionismo formale. Contraltare di una invincibile perfetta nobiltà interiore! E se e quando per autonoma riflessione e/o per un qualche suggerimento amicale indugiava a riflettere sui vantaggi ai quali avrebbe potuto aspirare ottemperando alle nuove leggi e decreti che si duplicavano di giorno in giorno, il ricordo di quella funzione di investitura, di quel solenne giuramento che di colpo e peraltro lo avevano elevato fino alle alte quote di “importanza” famigliare della quale non aveva fino a quel momento mai sentito di poter personalmente appartenere, si poneva come ineludibile diaframmatico ostacolo verso l'accettazione dell'attuale governo. Le cui leggi all'esame della sua coscienza apparivano quali vili strumenti di distorsione del diritto. No! Nella sua coscienza quelle nuove idee cozzavano con la purezza ed assolutezza di un ideale morale. E quelle promesse apparivano vane irrealizzabili e quindi truffaldine: era soltanto l'usurpazione di un regno con le relative norme vanamente leggittimatrici dell'usurpatore. Era l'invasione di un territorio da parte di un esercito straniero, che aveva avuto successo grazie sopratutto al tradimento di molti. La consapevolezza poi di essere, quindi, tra i pochi giusti alimentava un autogratificante sentimento di quasi classica eroicità, mentre rinvigoriva l'avversione fiera per le nuove idee. Che egli colorava a tinte sempre più fosche.
Nicola, quindi, i suoi dragoni urbani finché gli fu possibile li tenne ben nascosti.
Ma, l' “invasore francese” quando venne comunque a conoscenza dell'esistenza di quel drappello, di quello strano, anacronistico esercito in miniatura ne fece immediata richiesta a Nicola. Era il 1806. Gli fu fatto anche presente nell'occasione che la immediata ottemperanza al diktat avrebbe potuto scongiurare la applicazione delle gravi sanzioni previste per tutti coloro che - proprio come lui - non avevano immediatamente obbedito alle varie ordinanze che imponevano a tutti i cittadini indistintamente di porsi al servizio del nuovo governo. Ma il Nostro ebbe l'impudenza (anzi la fermezza d'animo!) di negare la disponibilità dei suoi uomini. E di sé stesso! Contestava il de Renzis al nuovo governo, nel vago e pretestuoso tentativo di schermare almeno nell'immediato la reale ed intima indisponibilità del suo animo e di paraventarla dietro un formale ed esteriore argomento logico (o che tale potesse apparire) la schizofrenica incongruenza di quella concreta personale imposizione a lui, rispetto al quasi contestuale, generale ed ideologico decreto di eversione della feudalità del quale menava vanto il napoleonide re (Giuseppe Bonaparte). La particolare richiesta proprio da quegli a lui pervenuta si concretava, infatti, nella ossimorica applicazione proprio di un evidente residuo fossile di quello stigmatizzato ordinamento feudale. Che in funzione delle incompatibili attuali leggi eversive della feudalità promulgate da Giuseppe Bonaparte non poteva certo ed appunto essere considerato vigente: si sarebbe trattato, infatti, di una sorta di attuale applicazione di una medioevale adoa! La sterile querelle innestatasi sulle dette considerazioni grazie alle quali o Capitano intendeva restare fedele ai Borboni, ma nel contempo scongiurare la galera durò qualche tempo e non produsse alcun risultato. Anzi il risultato poi ci fu: Nicola fu arrestato. Languiva, quindi, il de Renzis per regale vendetta, (formalmente come reo di stato) nel carcere politico di Santa Maria Apparente, dopo essere stato “ospite” in quello di Montesanto, quando il suo compaesano ministro dell'interno (conte Zurlo) si attivò per la sua liberazione. Ma con una poco limpida procedura, alcuni profili della quale oggi troverebbero la loro corretta collocazione sistematica (nondimeno in precario equilibrio) in quella altrettanto poco limpida zona antigiuridica a mezza strada tra la concussione e la corruzione (corruzione concussiva o concussione corruttiva?). Ancora una volta infatti (e quasi duecento anni dopo) la bramosia di possesso che quel reperto archeologico (il busto di Annibale) andava esercitando sui potenti di turno stava per catapultare i suoi sconquassanti effetti sul suo legittimo proprietario. Ancora una volta uno di casa Renzi: Nicola de Renzis. Effetti, però e come si vedrà, questa volta dirimenti sulla privazione della libertà personale di cui al momento soffriva Nicola. Che, però, forse meno furbo dell'avo Simione non si era prudentemente procurato alcuna opportuna copia del prezioso marmo, nonostante pochi decenni addietro di quel busto erano state ricavate proprio con il suo consenso una copia in marmo ed un calco in bronzo dai fratelli Francesco e Giuseppe Daniele.
Quando quindi nel 1808 Giuseppe Zurlo, su suggerimento del futuro ministro dell'interno marchese Tomasi (del quale il magnifico Francesco -il padre di Nicola- era comproprietario di alcune masserie e terreni in Capua Caserta e Santa Maria Capua Vetere pervenutigli dall'asse ereditario di un Giulio de Renzis che aveva sposato una Tomasi dei marchesi di Montanara) gli prospettò la “convenienza” di regalare quel reperto a Gioacchino Murat che ne desiderava fortemente il possesso (proprio come 200 anni prima aveva fatto il vescovo di Capua Caetani con Simio per conto del Cardinale Aldobrandini), a Nicola, privo di cautelari marmorei rifacimenti, non si presentò alcuna possibile alternativa alla coatta accettazione della proposta. Cioè alla immediata consegna del busto. Era avvenuto che l'aristocratico compaesano, consapevole della pantagruelica e rapinosa voracità collezionistica di Carolina Bonaparte (che ambiva alla formazione di una sua personale collezione d'arte) e della interagente e compiaciuta accondiscendenza al riguardo del suo augusto consorte Gioacchino; consapevole peraltro della importanza della collezione Renzi di cui si era già occupato a proposito di una Minerva e del Puttino con Delfino (reperto dal Granata definito “Anfione e Delfino”), che da quella Casa Renzi erano già passati in possesso dei Murat, miranti ora al famigerato busto, aveva proposto al de Renzis di dichiarare la sua politica “conversione” ed offrire quella “celebre statua” come manifesta espressione resipiscente. Ed al Murat di disporre come atto di perdono la liberazione del “reo di stato”. Anzi e paradossalmente (essendo “rimasta vacante la funzione del cav. Filangieri”, che il Tomasi suo grande ammiratore aveva destinato ad altro più rilevante incarico), di nominarlo ispettore delle prigioni di San Francesco, come elargizione di regale riconoscenza.
Il de Renzis molto più tenacemente coatto del suo avo Simione (che tutto sommato aveva agito da libero e per mero reverenzialis timor e/o anche e forse per la non peregrina speranza di interfacciati avanzamenti nella carriera ecclesiastica) data la sua condizione di “ristretto” in carcere non aveva alcuna reale libertà di decisione. Di contrastare cioè la volontà del ministro (anzi dei due ministri!). E, meno che mai, la bramosia del re. Del resto non ne poteva più Nicola dell'ingiusto carcere.
Peraltro, in quella limitata condizione di per sé umiliante nel decoro e stigmatizzante nella reputazione non poteva certo neanche gestire al meglio il pesante contenzioso patrimoniale che la sorella Teresa, istigata dall'amica e futura consuocera Francesca Gaetani d'Aragona (così come gli aveva segretamente confidato l'altra sua sorella monaca Rosina) gli aveva avviato contro e che all'epoca era ancora “pendente” innanzi alla Gran Corte Civile di Napoli. Ove, poi, il barone Francesco Antonio Mirto marito di Teresa (tanto “addentro” agli ambienti giudiziari dell'epoca da propugnare con successo la presidenza della Gran Corte Criminale del Molise per il giovanissimo figlio Gaetano) vantava qualche significativa amicizia alla quale poter opportunamente rappresentare al momento giusto lo scontato disvalore morale di un “reo di stato”, epiteto questo che almeno formalmente ben si attagliava allo sfortunato Nicola. (V. Biblioteca Nazionale di Napoli sez. napoletana “Per donna Teresa de Renzis contra don Nicola de Renzis”).
Per don Nicola, quindi, non vi era altra scelta fuori dalla immediata ed incondizionata accettazione della proposta Zurlo - Tomasi: e la cosa fu fatta! Con tanta celerità che il formale atto di clemenza fu addirittura successivo alla materiale liberazione del Nostro. Il quale, poco dopo e così come era stato disposto dalla coppia ministeriale, fu effettivamente nominato insieme al duca di Pescolanciano ispettore economo delle Prigioni di San Francesco, al posto del “cavalier Filangieri”. Un incredibile salto al di fuori della prigione. Rimanendovi, però, dentro!Conclusasi successivamente e drammaticamente a Pizzo Calabro nel 1816 la meteora Murat e finito il “periodo francese” i borboni rientrarono nel possesso dei loro domini dando vita alla c.d. restaurazione. Periodo in cui l'attenzione del governo come è noto si attivò con micronizzato scrupolo indagatorio per una salutare distinzione di quei sudditi che avevano dimostrato incrollabile fedeltà da quelli “oscillanti” o addirittura infedeli. Ora, nonostante l'incipit della vicenda di cui sopra militi chiaramente in favore di una indiscussa originaria fedeltà del de Renzis al trono borbonico, è altrettanto vero che la evoluzione poco limpida della stessa, conclusasi persino con l'investitura di una carica istituzionale pubblica di quel governo in capo al Nostro (che non aveva esitato a donare reperti archeologici all'usurpatore francese) non era certo faccenda da riesumare pubblicamente. È ovvio quindi che, dopo il 1816, in tali frangenti, i de Renzis avevano poco o nessun interesse a lasciar trapelare la notizia della scomparsa di quei reperti e sopratutto del famoso busto (cioè della relativa donazione al Murat). Ecco quindi che quello sfortunato antiquario (come allora si diceva per indicare uno studioso di antichità) che si fosse avvicinato a casa Renzi in Santa Maria Capua Vetere con la dichiarata prospettiva di visitare quel “museo” (come era avvenuto al Rucca) o, magari proprio e soltanto l'Annibale, contestualmente si riceveva e senza mezzi termini uno sbrigativo rifiuto. Non certo cortese, ma idoneo a prevenire eventuali ed inopportune insistenze.
Ed è rilevante notare al riguardo che lo Scotti nella sua opera “Dissertazione sopra un antico mezzo busto…” edito a Napoli nel 1813 asserisce falsamente (forse per amicizia con i Renzi o forse in buona fede avendo portato il suo esame non sul busto originale ormai nel possesso di Carolina, ma sulla copia in marmo eseguita pochi anni prima dallo scultore Solari per conto del Daniele) che quel busto “è fino ai nostri giorni gelosamente conservato insieme ad altri bellissimi monumenti a Santa Maria Capua Vetere in casa Renzi”. Sic!
È documentalmente verificabile invece che in occasione dei moti del 21 e delle relative cautele poliziesche disposte da Ferdinando (ora primo delle due Sicilie) il de Renzis riconosce in sede di “scrutinii di polizia” di aver ricoperto funzioni governative nel passato periodo francese e di aver fatto dono al Murat della nota statua nel 1808. Ma si premura poi anche di fornire le relative corpose giustificazioni al riguardo. E lo fa anche per dare un qualche contenuto di concretezza alle sue dichiarazioni di pregressa fedeltà ai Borboni: quelle dichiarazioni, infatti, le rilasciavano senza esitazione anche noti patrioti-carbonari, come Carlo Poerio, che proprio con lui e nella stessa giornata si era recato nei competenti uffici di polizia, per rendere appunto quella dichiarazione.
Quindi, nel 1813 il busto non era affatto gelosamente conservato in casa Renzi in Santa Maria Capua Vetere, come sostiene lo Scotti, né – meno che mai – nel 1828 come crede il Rucca, che non si spiega l'avversione dei Renzi nei confronti degli aspiranti visitatori del “museo” e la bolla come riconducibile ad una tralignata condizione degli “attuali rappresentanti di Casa Renzi”.
In ogni caso quel busto (quello originale) non rientrò mai nella disponibilità del de Renzis, ma (sorte anche di una “Pallade” e di un “Puttino con Delfino” in mosaico) finì al Real Museo Borbonico. Poi (ed attualmente) M.A.N.N.
E qui si pone il problema, che ha dato vita alla presente narrazione storica: quel busto (quello originale) al MANN non è oggi rinvenibile. E dalla dirigenza (e negli scorsi decenni) non si forniva alcuna spiegazione al riguardo. Da qualche tempo, invece, e precisamente da quando in rete è comparso il busto di Annibale conservato al Quirinale, si legge che quest'ultimo è proprio quello originariamente conservato al MANN!!!!!
Sappiamo, invece e per quanto sopra detto, che il busto del Quirinale è una copia cinquecentesca regalata dall'Aldobrandini allo zio papa Clemente VIII ed è sempre stata al Quirinale allora palazzo dei papi.
Ora, se anche volesse disconoscersi l'evidente differenziale artistico rilevabile tra le due statue (così come percepibile dalla collazione delle due relative riproduzioni fotografiche), se anche arrampicandosi sugli specchi volesse negarsi la esuberante verosimiglianza della prima parte di questa narrazione (vicenda del XVI secolo relativa al busto Aldobrandini), nonché la documentata riconducibilità al vero della seconda parte (questione del XIX secolo relativa al busto Murat), ci si troverebbe comunque di fronte alla ineludibile necessità di fornire alcune convincenti risposte in ordine alle seguenti domande:

a) se il busto che sta al Quirinale è il busto originariamente scavato a Capua ed è proveniente dal museo napoletano, il busto Aldobrandini dov'è?

b) Se il busto che sta al Quirinale è quello che stava al MANN, perché quest'ultimo non è in possesso di una adeguata documentazione al riguardo?

c) Quale attuale documento consente tuttora al Quirinale di tenere presso di sé un reperto scavato nel Napoletano, di proprietà di un napoletano, da questi donato al re di Napoli e custodito, infine, al MANN?

d) Come mai il numero di inventario (5070) incusso nella parte postica del busto del Quirinale non corrisponde al numero di inventario generale (6137) attribuito dal MANN al busto in questione, così, come risulta dalle relative “guide” susseguitesi nel tempo?

P.S.

Non sarebbe, poi, completa questa narrazione senza qualche ulteriore notizia (e relativo supporto!) su altri due busti anch'essi riprodotti dall'originale “scavato tra le ruine di Capua Antica”.
I due busti ora in questione sono l'uno in bronzo e l'altro in marmo. Ed entrambi sono copie dell'originale reperto capuano, volute dal citato Francesco Daniele storiografo di corte borbonica e fratello dell'archeologo Giuseppe. (V. in nota “Ragionamento sopra un antico mezzo busto” di Giuseppe Daniele)
Il primo il Daniele lo tenne per sé per qualche tempo e, poi, se ne persero le tracce. Qualche notizia lo segnalava anni addietro a Pistoia o dintorni ed una fotografia di questo busto compare in rete.
L'altro – quello di marmo – fu oggetto di dono (ancora!) al conte di Wilzeck maggiordomo di camera di S.A.R. l'arciduca d'Austria. E ritengo che questa scultura sia proprio quella descritta in una lettera che un antiquario di Praga ex funzionario della corte imperiale reale austroungarica (Nicola Lhemann) inviò al Museo Archeologico di Napoli nel 1882. Nella detta lettera quell' antiquario asseriva di essere in possesso di una testa di Annibale in marmo assolutamente identica a quella conservata nel museo napoletano e chiedeva di sapere quale delle due fosse l'originale.
È verosimile, infatti, che gli sconvolgimenti politico territoriali che negli anni precedenti avevano visto l'assetto dell'impero austriaco trasformarsi in austroungarico avevano determinato anche conseguenti e disastrosi adattamenti personali della relativa corte in genere e che il Wilzeck in quei frangenti fosse stato costretto a disfarsi di quella statua finita poi ai Lhemann a Praga (ex impero austroungarico).

NOTA.

La collezione Renzi è stata più volte ( ed anche a vario titolo) riportata sia in tempi remoti ed in antichi testi e frequentemente segnalata nei ricordi di studiosi locali intenzionati alla documentazione dei fasti e delle antichità di Capua antica, sia in epoche a noi più vicine: a partire cioè da Giulio Cesare Capaccio che nella “giornata nona” della sua opera “il Forastiero” del 1638 a pag. 854 ricorda che la famosa “testa di Annibale” fu ritrovata tra bellissimi ornamenti di marmo nel podere di un prete in Capua (e ricorda anche e con dichiarato disappunto che malauguratamente fu venduta al Cardinale Pietro Aldobrandini), fino alle più recenti e quasi attuali pubblicazioni della metà del secolo scorso della Guerini e del Gasparri sulle statue del Quirinale.

N.B.

Il busto di Annibale presente al Quirinale sulla quale la Guerini ed il Gasparri hanno portato il loro esaustivo esame a mio avviso non è l'originale “scavato tra le ruine di Capoa Antica”, ma una copia, come detto nel prosieguo della trattazione.

Va notato che l'o. c. del Capaccio (che come detto vide la luce nel 1638, anno di molto successivo alla morte del cardinale Aldobrandini avvenuta nel 1621, evento questo che peraltro aveva certamente e da tempo sdoganato qualsivoglia schietta manifestazione critica sull'operato del defunto !) testimonia, quindi, che all'epoca del ritrovamento della testa di Annibale, la collezione era da tempo in atto e già cospicua. Anzi, la primigenia costituzione della raccolta Renzi ad opera di Simione e la scoperta del celebre busto possono essere notevolmente retrodatate rispetto alla prima edizione della citata opera (1638), se si considera che la vendita in parola dovette necessariamente avvenire in epoca per certo anteriore al 1605, anno della morte di Clemente VIII, cui – come sopra esposto – quel busto era fin dall'origine destinato. Ed al quale di fatto fu poi regalato dal nipote cardinale Aldobrandini!

Quella collezione, ancora, è ricordata molto tempo dopo in “Catasti Onciari” di Santa Maria Capua Vetere 1754 (ABE Ed.), ed è descritta come un “ricco museo di busti, vasi antichi” etc.” che ispira molta venerazione agli occhi degl'intendenti” (di coloro che si intendono di antichità n.d.r.). Trova collocazione poi nella fondamentale “Storia della fedelissima città di Capua” del 1754 di Francesco Granata, che a pag. 74 descrive la casa palagiata in piazza dell'olmo di Santa Maria Maggiore del dottor Simio de Renzis (ovviamente si tratta di un discendente dal Simione originatore della collezione) come un museo ove “puossi ammirare tra splendidi vasi antichi anche una Pallade, un Anfione e delfino” ed altre galanterie. È ricordata poi specialmente da Giuseppe Daniele nel suo “Ragionamento intorno ad un antico Busto” del 1781, lì dove attesta di aver potuto studiare quel marmo tra reperti archeologici “di cui non sa di aver veduto altrove i più belli”; va detto che il Daniele in quel “ragionamento” sottoscrive la tesi di coloro che hanno in quei tratti marmorei individuato la fisionomia di Annibale. Questa posizione presa dal Daniele, cioè, dal più noto archeologo napoletano dell'epoca (fratello peraltro di Francesco storiografo ufficiale del regno) sembrò sancire la giustezza della detta tesi. E', però, notevole che il Winkelman nella sua monumentale opera “Storia delle Arti e del Disegno presso gli Antichi” edita nel 1783 (alla nota a pag. 320 del vol. 2°) fa riferimento alla cennata congettura del Daniele, stroncandola come “ priva di sodo fondamento”. Né sostiene, peraltro il Winkelmann, alcuna altra ipotesi, e neanche quella di coloro che credettero di scorgere nel marmo in parola le sembianze di Giunio Bruto. Ancora il “Dizionario Geografico Historico del Regno di Napoli” di Francesco Sacco ed. 1796, a pag. 341 del tomo 3° ricorda che” tra le collezioni archeologiche si distinguono quelle del vescovo di Capua e quella di casa Renzi in Santa Maria Capua Vetere”. Ancora Antonio Scotti nel 1813 nella sua “Dissertazione sopra un antico mezzo busto” sostiene di averlo ammirato in casa Renzi tra “molti preziosissimi monumenti”. Ed anche lui, sulla scorta del Winkelmann, contesta la riconoscibilità in quel marmo delle fattezze di Annibale.

N.B.

Poiché come esposto nella trattazione dei fatti nel 1813 la statua originale di Annibale era già stata donata da Nicola de Renzis a Gioacchino Murat, è evidente che lo Scotti deve aver portato il suo esame non sull'originale, ma sulla copia fatta eseguire qualche decennio precedente a Capua dal Daniele, poi donata al conte di Wilzeck, ma ancora in quelle circostanze (almeno così sostiene lo Scotti) in possesso di casa Renzi “tra altri bellissimi monumenti”.

(Fine)

Fabio de Renzis
(da Il Sidicino - Anno XV 2018 - n. 2 Febbraio)