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Indice Fabio de Renzis
 
 

La collezione archeologica di Casa Renzi (de Renzis)

e la questione del busto di Annibale
 
(I parte)
 

Brevi cenni storico-narrativi sulla sua costituzione, successivo arricchimento ed infine silente dispersione. Persino dell'importante, unico residuo reperto: il busto di Annibale. Che - finito dopo rocambolesche vicende al M.A.N.N. - sembrava illusoriamente percorrere un suo proprio itinerario tracciante e per ciò stesso salvifico: sottratto all'oscuro destino dissolutore di tutti gli altri “pezzi” di quella antica collezione.

Prefazione

Questa è una “narrazione storica” nel senso che la descrizione di dati fondanti (storicamente verificabili) si interfaccia e/o implementa (nel suo diacronico scorrere e comporsi con l'attuale scoperta di remote verosimiglianze fattuali) con una evoluzione espositiva in cui premesse psicologiche, ambiziosi progetti e fumosi disegni non sempre edificanti dei personaggi che vi si muovono (tutti realmente esistiti, coevi ed agenti nelle precipue funzioni descritte) danno vita ad un inquietante giallo archeologico il cui immutato centro motore resta per secoli il busto di Annibale e costituiscono gli antefatti o le conseguenze (ovviamente non sussumibili se non nel parametrato ampio, universale, ma caleidoscopico spettro delle sempiterne passioni dell'animo umano) di fatti raggiunti invece da ineffabili supporti probabilistici, quando non assurti a dignità di ineludibile prova documentale.

CAPUA - INIZIO XVI SECOLO

Il fervore che in quegli anni andava (ri)nascendo in Italia ed in particolare nel regno di Napoli per la cultura classica quale attuale, rivificante appannaggio di antiche glorie della propria storia culturale e la conseguente passione sviluppatasi nelle famiglie aristocratiche per gli scavi archeologici quale corrispettivo status symbol di appartenenza appunto famigliare a quel portato storico non poteva lasciare indifferente Capua. E meno che mai la Capua antica: Santa Maria Capua Vetere.
Fu così che una località situata a mezza strada tra Capua e Santa Maria Capua Vetere detta “Santu Jorio” e più precisamente un podere di casa Renzi “ubi vulgo dicitur Casa Cerere” fu rigorosamente ed oculatamente sottratto alla sua naturale destinazione seminativo-arbustiva tipica della zona e sottoposto ad intense opere di scavo: una vera e propria campagna archeologica.
La quantità (e sbalorditiva qualità!) di reperti che in progressione di tempo venivano alla luce in un montante accrescitivo manifestamente e direttamente proporzionale all'ingravescente fatica degli scavatori (a loro volta ed in ancor maggiore misura sollecitati dall'interfacciato ed incontenibile entusiasmo dei committenti), finì per costituire una ricchissima, formidabile e pregevole raccolta. Che - riflessiva patente della antichità, ricchezza e rilievo di Capua antica - fu frequentemente ricordata nelle opere di storici locali di quei tempi. Anzi fino ai primi anni dell'800 e talvolta (anche enfaticamente) come “il tesoro di Capua”! Che Giacomo Rucca ad es. nel suo testo “Capua Antica” del 1828 in questi termini infatti riporta e che – nonostante qualche ostentato e spocchioso suo malanimo nei confronti di casa Renzi, i cui rappresentanti sgarbatamente gli avevano precluso la visione di quel “te- soro” – riconosce di fatto (e certo al di là delle sue stesse intenzioni) che quei preziosi reperti, giunti agli attuali proprietari dalla collezione cui ave- va dato inizio circa 300 anni prima Simmaco (rectius Simio) de Renzis, era- no molto gelosamente e ben conservati dagli attuali proprietari in Santa Maria Capua Vetere. (Olim Santa Maria Maggiore).
In verità (e non per parzialità di giudizio) va detto ora che la franca ritrosia che all'epoca i de Renzis senza troppi riguardi mostravano nei confronti degli studiosi e/o chicchessia chiedesse di visitare quand'anche da lontano il “museo” (come allora si diceva), proprio quella anelastica ritrosia che aveva indispettito il Rucca è - oggi ed alla luce disvelante di pliche storico-famigliari secretate nei coni d'ombra di necessitate ed individuali opportunità politiche - ampiamente comprensibile e giustificata. Anzi, più che ritrosia, quella dei Renzi doveva verosimilmente essere vero e proprio timore: dalla collezione, infatti, erano stati certamente sottratti una Pallade ed un Amorino con Delfino in mosaico e - soprattutto - il famigerato busto marmoreo di Annibale. Quel reperto, cioè, intorno al quale fin dal suo dissotterramento nel 500 nella citata località era nato molto clamore e sullo studio delle cui caratteristiche, età e cifra stilistica alcuni dotti archeologi successivamente (tra la fine del 700 e l'inizio dell'800) avevano esercitato la loro specializzata competenza confrontandosi (talvolta anche su avverse posizioni) in una sorta di certamen culturale i cui risvolti oscillavano tra una schietta esegesi filologica portata su antichi testi classici di varia erudizione storico-letteraria ed una più immediata ostentazione di puntuale ed illuminata scienza archeologica. E dando infine alle stampe il prodotto dei relativi poderosi studi. Mancavano cioè, alcuni “pezzi” molto importanti e mancava anche e proprio quel reperto che certamente e sopra tutti gli altri doveva aver alimentato l'interesse degli aspiranti visitatori.
Ma il motivo della scomparsa di quei reperti e segnatamente della “celebre statua in marmo di Annibale cartaginese” come si vedrà non era per nulla confessabile. Non (certo ed almeno!) in piena epoca di restaurazione borbonica.
Ma torniamo all'inizio di questo racconto storiografico. E precisamente allorquando il dissotterramento di quel magnifico busto prima e della pertinente testa poco distante, poi, nella cui fisionomia furono subito (ed a torto?) riconosciute le sembianze di Annibale. Quell'Annibale, i cui notissimi ozii proprio a Capua antica (e con tanto successivo compiacimento storiografico) erano stati “spalmati”. Torniamo al tempo in cui quel reperto una volta venuto alla luce aveva sprigionato una seducente malia innescando una sorta di furore escavatorio. Allorquando, cioè, quella scoperta andava destando una tale eccitazione collettiva tra gli “addetti ai lavori” che la relativa notizia propalata ed enfatizzata quasi negli attuali modi mediali e con travalicante portata telematica superò presto i confini vicereali napoletani e giunse a Roma. Ed a conoscenza di uno dei più importanti “intendenti” di cose antiche dell'epoca: il potente e ricco cardinale Pietro Aldobrandini. Al quale Niccolò Caetani di Sermoneta, vescovo di Capua, si era affrettato a comunicare la notizia del fantastico ritrovamento, sottolineandogli anche che il papa Clemente VIII Aldobrandini (zio del detto cardinale) sarebbe sta- to molto grato a chi lo avesse” sorpreso” facendogli dono di quella testa. Sapeva, infatti, il Caetani che gli Aldobrandini avevano da poco acquistato (all'asta ed a prezzo vile) una stupenda proprietà terriera e relativa torre in località appunto detta” Torrenova”. Proprietà che era stata espropriata ai Cenci: proprio quei Cenci ai quali apparteneva la sfortunata Beatrice cui Clemente VIII non aveva voluto (con quella stessa ostinata fermezza che aveva condotto al rogo Giordano Bruno) concedere la grazia. Sapeva ancora quel vescovo che il papa personalmente e più volte si era recato a Torrenova per disporre e seguire imponenti lavori di ristrutturazione che alla fine avevano trasformato la originaria casa turrita in un magnifico castello e che nel dare incarico alle maestranze di totale rifacimento persino della strada che portava alla parte abitativa della proprietà si era con quelle raccomandato di procedere con molta cautela negli scavi: indipendentemente da una generica passione archeologica, che in quegli anni andava contagiando il ceto aristocratico e l'alto clero, il papa era quasi soggiogato, infatti, dal pensiero che proprio in quella terra aveva messo nel 200 a.c. circa il suo campo Annibale. Il nemico giurato di Roma di cui ora lui – il pontefice – era sovrano. Le maestranze, quindi, non avrebbero dovuto danneggiare eventuali millenarie testimonianze evocatrici delle storiche gesta annibaliche ed avrebbero dovuto immediatamente avvisarlo di ogni e qualsiasi rinvenimento archeologico. Proprio quelle terre del resto aveva dovuto vendere Fabio Massimo Cunctator per pagare il prezzo ad Annibale quale riscatto per la libertà dei soldati romani “fatti prigioni”. E proprio in quei luoghi ne era avvenuta la liberazione. Era facile intuizione per il Caetani che il papa sarebbe stato ben felice di ricevere in dono e custodire in una sua proprietà (solidamente imprigionato nel marmo ed appunto in quei luoghi) il famigerato cartaginese. Quand'anche e soltanto in scultoreo simulacro! Peraltro, congetturava ancora il Caetani che aveva una particolare predilezione per il cardinale Cinzio Passeri altro nipote di Clemente VIII, quel prezioso cimelio sarebbe stato certo regalato al papa, ma concretamente il beneficiario del dono sarebbe stato proprio il cardinale Cinzio Passeri Aldobrandini, cui secondo le accentratrici disposizioni papali, era destinata in prosieguo di tempo la proprietà di Torrenova: insomma due piccioni con una fava.
Cinzio, però, figlio di una sorella del papa al momento non poteva liberamente disporre di danaro.
Ecco che il Caetani non si rivolse a quest'ultimo, ma al più giovane e molto più ricco cugino Pietro Aldobrandini. Il quale, avuta la notizia dal Caetani, che peraltro si era subito e spontaneamente detto disponibile ad una funzione intermediante con i Renzi, si attivò freneticamente per venire in possesso di quello storico cimelio repertato a Capua e del quale prima ancora di vederlo (e pur sapendo di doverlo ineluttabilmente donare allo zio papa) si era invaghito perdutamente. E - forte di quella ineffabile supremazia cardinalizia de plano sopraffattrice di inermi condizioni pretili e sicuro dell'interfacciato, doveroso timore reverenziale appunto di un giovane prete, quale Simione era - si prodigava senza indugio sulla riflessione e sullo studio della più adeguata collocazione che quel busto avrebbe potuto trovare (sia pure soltanto temporaneamente) tra i tanti marmi antichi che andavano via via arricchendo la sua strepitosa collezione ostentata con adeguata magniloquenza nella grande e splendida villa a Roma, sul colle del Quirinale: la famosa “villa Magna Napoli”.
Effettivamente (rifletteva l'Aldobrandini) la richiesta di acquistare quel reperto formulata da parte di un alto prelato ad un prete in erba già di per sé non avrebbe dovuto trovare prevedibili ostacoli, ma in funzione della sua personale posizione, cioè di cardinale la cui relativa investitura era riconducibile alla particolare predilezione del papa regnante Clemente VIII, di cui era nipote, (papa, peraltro, che a sua volta era nipote del defunto Sisto V) allora la cosa si poteva considerare già in porto. Inoltre rifletteva ancora Pietro Aldobrandini, don Simione sarebbe stato avvicinato non soltanto ed anche dal giovanissimo suo parente Carlo Loffredo già in odore cardinalizio, ma addirittura dal suo stesso vescovo, (il Caetani) che gli avrebbe rappresentato con garbo peloso il desiderio del nipote del papa, (senza chiarire, però, che proprio quest'ultimo sarebbe stato il fruitore finale dell'operazione).
Ed, infatti, le cose proprio così andarono: quando dopo circa un anno dalla fantastica scoperta pervenne la richiesta, Simione de Renzis non si azzardò neanche nel pensiero a contrastare le desiderata del suo potente e virtuale “superiore gerarchico”, di cui per colmo di misura si era fatto latore l'altrettanto potente (e reale superiore gerarchico!) arcivescovo di Capua, Niccolò Caetani di Sermoneta. Che inopinatamente e subdolamente aveva preannunciato a don Simione una sua personale visita destinata ad ammirare il famoso “museo”. Il Caetani, infatti, era anch'egli proprietario di una rinomata collezione archeologica, (spesso ricordata in contiguità valoriale alla collezione Renzi in Santa Maria Capua Vetere) ed in tale pretestuosa veste di “intendente” si era presentato in visita a casa Renzi. Visita sottesa in realtà alla preventivata richiesta del busto di Annibale, per conto del cardinale Pietro Aldobrandini.
Ma...... c'è un ma: il giovane Simione (detto Simio) de Renzis (di casa Renzi), giovane si, ma previdente, quasi presago delle bramosie che quel reperto avrebbe potuto destare (o per qualche motivo che non è dato oggi conoscere) aveva nella immediatezza della formidabile scoperta chiamato a sé un bravissimo scultore cui aveva con celerità e segretezza commissionato innanzitutto la ricollocazione della testa sul busto repertato qualche giorno prima ed immediatamente dopo una perfetta copia del marmo nella sua integrità. Che doveva essere eseguita però il più rapidamente possibile. E la copia fu pronta in otto mesi di ininterrotto lavoro, che al de Renzis costò un patrimonio. La somma oggetto di apposita fede di credito intestata allo scultore fu depositata da Simio presso il banco della Pietà che già dal 1539 era sorto a Napoli ed ove il beneficiario ne incassò poi il controvalore. Ma fu danaro speso bene: quando, infatti e come detto, la perentoria richiesta di acquisizione del busto da parte del vescovo ed in nome dell'Aldobrandini gli pervenne, il timore reverenziale che certamente lo agitava impedì a Simio come detto persino il solo pensiero di opporre un rifiuto.... Ma non di conservare materialmente per sé il busto originale! Fu così che al Caetani prima ed al ricchissimo cardinale poi fu consegnata la mirabile copia commissionata segretamente dal de Renzis: con la testa che appariva come fosse stata riattaccata al busto (così come l'originale) con le stesse scheggiature al margine esterno dell'occhio sinistro e con tutte quelle peculiari connotazioni che non avrebbero consentito ad alcuno di porne in dubbio la autenticità: insomma un perfetto duplicato. Ma con una anima diversa: pensierosa e quasi dimessa, lì dove dal reperto autentico si sprigionava la ferma ed eroica determinazione volitiva del personaggio rappresentato. Degna appunto del famigerato condottiero cartaginese: il bravo falsario aveva ottenuto dal suo talento una scultura iconograficamente sovrapponibile all'originale, una fisionomia che si sarebbe detta ricavata da un preciso calco. Ma non era riuscito ad inserirvi dentro l'anima di Annibale. Che era invece rimasta con tenace vitalità aggrappata ai più intimi recessi molecolari dell'antico marmo originale: quello “scavato tra le ruine di Capua antica”. E, quando Simio vide partire la carrozza su cui era stata caricata la statua al seguito ed innanzi alla quale trottavano a due a due coppie di volanti armati, pensò in un libera- torio sospiro di sollievo (e forse anche di peso di coscienza) che tutte quelle precauzioni erano probabilmente superflue.
Non possiamo sapere con certezza e come detto quali motivazioni e/o timori avessero indotto Simio a munirsi di una copia di quel busto, ma - per la verità - non possiamo neanche dare per certa la consegna da parte sua all'Aldobrandini di un “aliud pro alio”. Certo è verosimile che l'Aldobrandini non si sarebbe accontentato (con quieta acquiescenza) di una copia, che egli peraltro sapeva segretamente destinata al papa, ma non abbiamo nondimeno dati per escludere che la compravendita sia stata condotta tra le parti negli esatti termini in cui realmente stava avvenendo. Cioè di una dichiarata dazione non dell'originale, ma di un busto che per quanto magnifico rimaneva pur sempre una copia. Sta di fatto però che se così anda- rono realmente le cose tutto fu tenuto nel massimo segreto: né Simione, né il Caetani, né l'Aldobrandini avevano (infatti, in ipotesi ed ognuno per le sue proprie motivazioni) alcun interesse a che si conoscesse la verità. E l'Aldobrandini, poi, doveva paventare ovviamente che la notizia potesse giungere al papa, al quale (nell'inconsapevolezza di Simio) la statua era ab origine destinata. Della perfetta segreta copia, quindi, nulla si seppe in giro e la notizia della migrazione di quel prezioso busto dal Napoletano (anzi proprio da Capua, la città degli storici “ozii”) allo stato pontificio destò molto malcontento tra i cultori dell'antico. E Giulio Cesare Capaccio qualche decennio successivo, nella sua opera “Il Forastiero” ed.1638 (già morto quindi sia Clemente VIII nel 1605, sia Pietro Aldobrandini nel 1621) ne stigmatizza l'operazione come frutto di arroganza cardinalizia (“coraggiosa” posizione questa non certo estranea alla recentissima morte del cardinale) e di dabbenaggine del Renzi: un capuano che si disfa della testa di Annibale! Incredibile. Ed aggiunge in paradosso il Capaccio che “per nessun tesoro al mondo quella trattativa sarebbe andata in porto se fosse stato ancora vivo Scipione”.
In ogni caso è ancora certo (o così possiamo ragionevolmente ritenere) che l'Aldobrandini collocò quel mirabile rifacimento sistemandolo tra i vari reperti collezionati ed esposti nella sua villa sul colle del Quirinale. E quando il “cavalier Marino” che ospite del cardinale si tratteneva in quel tempo nella splendida villa vide il busto di Annibale fu preso da invincibile curiosità circa la relativa provenienza. L'Aldobrandini cedendo infine all'insistenza del suo ospite gli parlò di Simione di Casa Renzi, di Capua, la cui ascendenza (o,certo almeno quella di omonima famiglia capuana) veniva fatta risalire nientemeno che a Cola di Rienzo. Il Marino rimase molto colpito dalla notizia e decise su due piedi di studiare e scrivere una biografia dello sfortunato tribuno e contemporaneamente, preso da ineffabile vena compositiva, iniziò a buttare giù rime per un'ode dedicata all'invincibile Cartaginese, del quale peraltro aveva già in qualche pregressa prosa evocato il nome accomunandolo a Cesare, Sardanapalo ed altri storici personaggi, come appunto Cola di Rienzo. La permanenza di Giovan-Battista Marino a villa Magna Napoli si protraeva poiché in realtà per il “Gran Maestro della Parola” si trattava di un rifugio dorato: la gendarmeria napoletana gli dava infatti la caccia a seguito di una delle non infrequenti sue violente intemperanze: quelle che l'Aldobrandini con paternale benevolenza definiva “bricconate”. Simili del resto a quelle che in quegli stessi anni e nella stessa Napoli un altro genio in altre discipline andava compiendo: il Caravaggio. Ma, il componimento sul Cartaginese - contrariamente alla biografia di Cola di Rienzo che vide poi la luce - non andò oltre qualche iniziale rigo. Il Marino infatti sosteneva che la visione del busto fosse necessaria e perenne fonte di ispirazione e, quindi, la vena poetica si infranse di colpo, allontanandosi con il reperto quando questo fu portato via: come previsto, il busto non restò per molto tempo a villa Magna Napoli. Ma non fu trasportato alla preventivata destinazione di Torrenova concepita dal Sermoneta: era avvenuto infatti che Clemente VIII in quel tempo andava rivalutando su consiglio anche del filo francese cardinale Baronio (successore di San Filippo Neri nella congregazione degli “oratoriani”) la architettonica adeguatezza funzionale del Palazzo del Quirinale (vicino del resto al Vaticano) come residenza di un vero capo di stato, di un sovrano. Di un papa che è anche sovrano: re! Quale di fatto egli era e quale (diceva il Baronio) era necessario anche che apparisse. Del resto, pensava Clemente, il suo predecessore onomastico Clemente VII non aveva nel 1530 a Bologna in San Petronio incoronato nientemeno che Carlo V imperatore del Sacro Romano Impero? Quell'impero sul quale “non tramontava mai il sole”! Il Vaticano quindi sarebbe restato sede del papa vescovo; il Quirinale del papa sovrano: re!
Ma il Quirinale non conteneva all'epoca quel fasto di arredi laici che solitamente determinano lo splendore di una regia. Clemente quindi si attivò subito per un opportuno reclutamento tra i più importanti antiquari romani. Enellarosadeglielettinontardòaricomprendervianchel'amato(egrato!) nipote (“antiquario” peraltro anch'egli oltre che cardinale) cui prospettò l'opportunità di una adeguata aulica rappresentazione di potere (terreno!) all'interno di quel palazzo. Fu così che le c.d. “Nozze Aldobrandini” e molte altre mirabili opere d'arte furono donate dall'Aldobrandini allo zio Clemente VIII e finirono al Quirinale.
Compreso il nostro busto che con grande soddisfazione del cardinale Pietro non fu quindi collocato al castello di Torrenova (del resto all'epoca ancora in ristrutturazione). Non raggiunse mai quindi quel busto la origina- ria destinazione di Torrenova, quale fantastica sorpresa allo zio papa secondo il piano del Sermoneta (e dove però e di fatto sarebbe poi finito in possesso del non amato cugino Cinzio), ma a due passi dalla sua stessa Villa Magna Napoli. Cioè al Quirinale.
Dove - da allora - è sempre rimasto!
Ed è certo che Simio, invece, (nient'affatto sprovveduto, come adombrato dal Capaccio) conservò gelosamente per sé quel busto originale. Ed è certo anche che oltre trecento anni dopo la sua scoperta (e per sequenze ereditarie) quel busto pervenne in proprietà a Nicola de Renzis, a Napoli.

(fine I parte)

Fabio de Renzis
(da Il Sidicino - Anno XV 2018 - n. 1 Gennaio)

Foto Alinari del busto di Annibale che dovrebbe essere al MANN

Busto di Annibale esposto al Quirinale