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Indice Guido Zarone
 
 

Un interessante documento del seicento sulla

separazione dei ceti di Teano
 

L'amico e consocio di “Erchemperto” Luigi Di Benedetto, infaticabile frequentatore di librerie e mercatini antiquari, è venuto in possesso dell'allegazione a stampa della fine del '600 (16 colonne di testo) di cui pubblichiamo il frontespizio.
L'allegazione è firmata dal difensore con le sole iniziali - I. R. - che risultano di difficile attribuzione, anche se il legale, citando il noto giurista del tempo Francesco de Petris, lo definisce nostro zio.
La vicenda è molto chiara. Ottavio Magno, della grande famiglia teanese estìnta che vestì l'abito di Malta, agisce davanti al Sacro Regio Consiglio per far riconoscere l'appartenenza della sua famiglia al ceto nobile della città e farsi quindi attribuire il diritto a ricoprire le tre cariche pubbliche civiche riservate ai nobili: quella di sindaco del primo ceto e quelle di governatore della Casa Santa dell'Annunziata e dello Stabilimento di S. Maria La nova. Il contraddittorio è instaurato con qualche nobile della medesima città e specificamente con D. Antonio Martino, D. Pompeo Galluccio, D. Scipione Barattucci e D. Vincenzo di Renzo, nonché con D. Giovan Giulio Barattucci che risiede a Napoli. Si noti che alla fine del sec. XVII i discendenti di Cola di Rienzo continuavano a far uso del primitivo cognome, successivamente latinizzato in de Renzis.
D. Ottavio fonda la sua pretesa sul fatto che da sempre la famiglia Magno è stata riconosciuta nobile, appartenente al primo ceto e il fatto è indubitabile poiché, nello stesso secolo, il suo avo D. Giulio aveva ottenuto, unitamente ai germani D. Giovan Vincenzo e D. Pompeo, la reintegrazione in tutti gli onori e dignità del ceto nobile di Teano. Il giudicato in favore dei tre era stato emesso, il 10 luglio 1923, dal Sacro Regio Consiglio su relazione del regio consigliere D. Camillo del Pezzo.
Nel rivolgersi ora nuovamente al Regio Consiglio, D. Ottavio lamenta che non è stata mai conferita, a lui e ai suoi stretti congiunti, alcuna delle predette cariche riservate ai nobili. Viene il sospetto che ad ispirarlo sia più un interesse materiale a diventare partecipe della gestione di un rilevante potere economico che un mero interesse ideale a fregiarsi dell'appartenenza al primo ceto. D. Ottavio aveva ricevuto gli ordini minori, cui rinunziò dopo il 1665 per sposarsi e trasferirsi a Napoli. Come sovente avveniva allora, il possesso dello stato clericale consentiva di essere investito di benefici ecclesiastici senza cura d'anime. Perdute le cariche ecclesiastiche, forse D. Ottavio mirava a sostituirle con quelle civili.
Torniamo al processo. I nobili, cui è stata notificata la supplica di D. Ottavio, costituiscono loro difensore il Dottor Matteo Bari ma poi, uno alla volta, dichiarano per iscritto di essere pienamente favorevoli all'accoglimento dell'istanza del Magno. lntanto il Bari, munitosi della nomina, continua a contrastare l'azione di D. Ottavio e lo fa a capriccio, dopo che i suoi clienti hanno dichiarato di non voler avversare la richiesta. Il 16 luglio 1696 il relatore D. Carlo Antonio de Rosa pronunzia decreto di accoglimento della richiesta. ll Bari vi si oppone e chiede che la causa sia decisa a Rote Giunte ossia dal Regio Consiglio in collegio. Per allungare ulteriormente la schermaglia procedurale (un tempo per gli avvocati valeva il detto dum pendet rendet) non compare in udienza, ma il Presidente avendo odorato che la materia era de solitis dilatorjis, ordina che sia il relatore de Rosa a pronunziarsi. ll Consiglio Collaterale, massimo organo della giustizia del tempo, conferma la decisione.
Il Bari, per dimostrare l'infondatezza di quanto pretende D. Ottavio, produce allora un'attestazione del notaio Antonio Conte, cancelliere della città di Teano (oggi diremmo: segretario comunale) per dimostrare che i Magno non hanno mai ricoperto uffici riservati a nobili o partecipato ad assemblee del ceto nobiliare. Ma l'avvocato I. R. ribatte che il Conte vuole apportar ombre allo stesso chiarore del sole, giacché, sempre nelle vesti di cancelliere della città, il Conte ha assistito a ben nove parlamenti cui hanno partecipato i Magno come nobili e inoltre Vincenzo Magno fu sindaco nobile nel 1635.
In calce al documento, annotato a penna, si legge che il Sacro Regio Consiglio, con decisione del 26 novembre 1698, reintegrò D. Ottavio Magno nel possesso della nobiltà della città di Teano.
La lettura di questo scritto difensivo fornisce qualche dato in più sulla genealogia dei Magno, ma soprattutto pone in luce un problema che nessuno dei nostri memorialisti ha mai esaminato, quello della separazione dei ceti. Sappiamo infatti (Broccoli, Teano sidicino ecc.) che Teano aveva due sedili, denominati dell'OImo e dei Leoni, sappiamo che l'Università era retta da tre sindaci in rappresentanza dei tre ceti, ed ancora ci è noto che il feduo di Teano aveva all'interno del suo territorio altri feudi nobili minori. Ma esisteva una vera separazione dei ceti?
La questione non è di poco conto, poiché la vera separazione, sancita o riconosciuta, comporterebbe il riconoscimento di un vero ceto nobiliare e, similmente a quanto avviene per tante città, i nobili teanesi potrebbero fregiarsi del titolo di Nobile di Teano. Gli atti della soppressa Consulta Araldica non indicano Teano tra le città che ebbero vero patriziato, né la include tra quelle il cui patriziato non fu riconosciuto. L'alIegazione di D. Ottavio Magno, corroborata da ulteriori atti processuali correlati, potrebbe quindi aprire la strada a nuove scoperte in merito all'effettiva separazione dei ceti.

Guido Zarone
(da Il Sidicino - Anno VI 2007 - n. 12 Dicembre)