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Sor Carlo

 

Dall'agro romano, giunse per caso perché incaricato del trasporto di un certo materiale e fu subito famoso. Si era negli anni 20 del 1900 quando i trasporti erano ancora effettuati con carretti a cavallo e solo qualche piccolo autocarro cominciava a circolare. Egli era, invece, giunto con un autocarro che oggi si direbbe un catorcio o un pezzo da museo, ma che allora sembrava immenso tanto che, tra noi bambini, il primo a ravvisarne l'arrivo, gridava: "Ehi, ecco l'autocarro di sor Carlo". E tutti ci fermavamo a guardarlo passare.
Infatti, sor Carlo era stato subito contattato dalle piccole imprese edili del posto che stimavano convenienti per costi e tempestività, l'uso di tale mezzo e sor Carlo trovò interessanti le proposte tanto che decise di fermarsi in loco. Il suo autocarro sembrava immenso col suo cassone di carico lungo circa 5 metri. Ma era poi così attraente così sempre sporco di polvere e calcinacci. Essendo ormai ai primordi della specie, non aveva una cabina coperta. Il parabrezza di celluloide giallina, con attaccato, la tromba a pompa, le leve delle marce e del freno fissate sul parafango anteriore di destra, perché allora il volante era a destra. L'avviamento era ancora a magnete per cui, per avviarlo bisognava infilare una manovella sull'apposito bocchettone posto sotto il radiatore e girarla energicamente col rischio di fratturarsi una mano nel caso di contraccolpo. Ma comunque sor Carlo diventò un personaggio, per questo egli decise di stabilirsi a Teano ed essendo solo, si sistemò presso una famiglia.
Sor Carlo esercitò indefesso lavoro di trasporto sino alla fine della guerra quando, affaticato dall'età ed avvilito dal progresso della meccanica automobilistica al confronto del quale quello che fu il suo gigante della strada sembrò un umile catorcio, decise di porre fine a quel lavoro e, per tirare a campare si improvvisò meccanico. Perciò, dotato solo di un po' di senso pratico, impiantò una rudimentale officina. I clienti non mancarono anche perché egli portò una tecnica quasi innovativa: la saldatura ad ossigeno.
Ma l'attesa dei clienti era molto lunga perché, la sua opera, per mancanza di una vera capienza, richiedeva lunga osservazione. Difatti, quando gli si portava un utensile da riparare, egli inforcava i suoi occhialini, incominciava ad osservarlo dall'esterno, lo ripuliva ben bene e cercava di individuare dove manovrare per aprire l'involucro. Poi smontava le viti e i dadi di fermo, e insieme all'involucro li deponeva in ordine sul banco. Poi incominciava ad esaminare l'interno per accertarsi di eventuali consunzioni o rigature e quindi smontava, ripuliva e posava i vari pezzi. E poi ancora osservava all'infinito. Talché il cliente incuriosito domandava: "Ma che state cercando?"
Ed egli con la solita flemma sentenziava: "La meccanica è come un libro; bisogna sapecce legge!"
Quando, infine pensava di aver trovato il guasto, si dedicava alla riparazione e quindi al rimontaggio. Allora, se aveva saputo leggere, tutto felice consegnava il frutto del suo lavorare. Altrimenti esclamava: "Nunce sta gniente da fa, ce vò er novo".
A volte qualcuno gli portava qualche oggetto da saldare ed essendo di solito cose di poco valore gli domandava il costo dell'opera. Anche in questo caso, osservando l'oggetto con flemma ripeteva: "Un po' de tempo ce vò, un po' de stagno ce vò, un po' d'ossigeno pur ce vò, e per meno de ducento lire nun se po' fa". Poi sor Carlo, come tutti gli esseri umani si trasferì in un regno dove tutte le riparazioni son più facili perché i difetti si leggono meglio.

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno IV 2007 - n. 11 Novembre)