L'ASSOCIAZIONE
 
il Sidicino
 
Indice per autore
 
Indice Paride Squillace
 
 

Carnevale di un tempo

 

Già i Romani solevano celebrare un lungo periodo di bagordi, il Carnasciale, in cui si lasciavano andare ad ogni specie di gozzoviglie e divertimenti e quest’uso si protrasse nel tempo, finché non giunse il cristianesimo a mettere un limite almeno nella durate a quell’usanza. Infatti, giacché volle stabilire un periodo di penitenza in prossimità della Pasqua, ossia la quaresima, fissò il giorno in cui quello doveva avere termine, chiamandolo Carnevale, che nella lingua latina allora parlata, significava “addio carne”, ossia: adesso basta con le crapule e dedichiamoci un poco alla penitenza in attesa della Pasqua.
Il giorno che noi identifichiamo con il nome di carnevale sarebbe la conclusione di quel periodo che in altri tempi si celebrava con l’ammazzare il carnevale. Perciò, nella mattinata stabilita, tutti andavano a fare visita al Carnevale, simboleggiato da un grosso fantoccio imbottito di trucioli e paglia, nonché di petardi, esposto nella camera ardente allestita nel locale attualmente sede di una rosticceria accanto alla Porta della Rua.
Là giaceva su una panca, adornato di ogni genere di verdure tra cui facevano spicco quattro grossi porri, ritti agli angoli, come candele accese.
Il corpo era cosparso di lupini ad imitazione di quanto veniva fatto con i confetti in particolari decessi di persone giovani. Nel pomeriggio venivano celebrate le esequie con la partecipazione di molti cittadini. Il corteo era preceduto dalla partecipazione di alcuni diavoli con tanto di corna e rumorose catene. Seguivano poi i confratelli incappucciati con in mano un grosso porro a mo’ di candela. Indi la salma, seguita dalla moglie disperata (solitamente Peppino “Cazzaino”) che, stringendo al petto un pupazzo come piccola creatura, gridava a tutti il suo dispiacere per la dolorosa vicenda, seguiva addirittura il vescovo con i suoi accoliti e poi il popolo.
Il corteo percorreva le strade principali e si fermava in Piazza Umberto I dove il notaio saliva su un piccolo podio e aprendo un grosso registro di carta paglia, di quella che allora si usava per incartare la carne, leggeva il testamento del defunto.
Questa era l’unica occasione in cui si potevano esprimere in pubblico le lagnanze verso le istituzioni. Il notaio infatti si sfogava nel lanciare accuse e rimproveri alle varie autorità cittadine, camuffandole come ultime volontà di Carnevale. Il corteo tornava poi a Porta Rua dove era eretto un alto palo alla cui cima veniva issato Carnevale. Si dava fuoco alla miccia e Carnevale scoppiava in mille pezzi tra l’applauso dei presenti e la gioia dei diavoli che correvano a contendersi gli stracci da portare all’Inferno.
Nel pomeriggio c’era l’esibizione di gruppi folkloristici che rappresentavano la storia di ‘Ntonia ‘a santa in cui il predetto, ricercato dai carabinieri per un delitto non commesso e nascosto in casa, veniva scoperto dagli agenti mentre la moglie cercava di nasconderlo allargando la sua ampia gonna. Era armato fino ai denti e allorché gli agenti gli intimavano: “Antonio, arrenditi!” egli rispondeva: “Tanno m’arrenno cu stu mio pistuolo, quanno ho finito palle, polvere e provvisioni!” e si dava alla macchia.
Un secondo quadro ricordava un episodio di Pulcinella, molto geloso della figliola che tiene sempre chiusa in casa perché non sia contagiata. Dovendo un giorno allontanarsi da casa per un certo tempo, raccomanda alla moglie Zeza di custodire bene la ragazza contando: “Zeza, Zeza, io mo vengo, statti attenta a sta figliola e nun la fa’ ascì mai. Tu nun la fa’ ascire e nun la fa’ pratticà, ca chello che nun sape se lu po’ mparà”. Avuta assicurazione dalla moglie, parte e la sua assenza si prolunga molto. Intanto Zeza concede molta libertà alla figlia e quando Pulcinella ritorna la trova alquanto ingrassata. Chiesto il motivo e conosciutolo, si avventa armato del suo solito corno contro il colpevole per punirlo. Interviene Zeza e la questione finisce con la promessa del matrimonio riparatore.
Un altro gruppo simboleggiava i mesi dell’anno come 12 figli, ciascuno dei quali desiderava far valere un suo desiderio particolare che, in fin dei conti, consisteva nel solo desiderio di mangiare finalmente un pasto di proprio gusto. Contavano: “Io songo ‘u primo figlio e pure pozzo cummannà. Nu piatto e maccaruni tutti quanti c’amma mangià”. E giacché per preparare il piatto occorreva del tempo, tutti intrecciavano una danza cantando: “E pe’ tramente ca mo vene, nuie mettimmece a ballà”. E così di seguito fino a quando ciascuno aveva espresso il suo desiderio.
Ma lo spettacolo più seguito lo dava il gruppo del “Lazo d’amore”, detto anche “ballo spagnolo”.
Come gli altri gruppi, si esibiva in tutti gli spiazzi disponibili ma aveva bisogno di spazi maggiori.
Era infatti composto da diverse coppie abbigliate con pesanti costumi spagnoli che danzavano trattenendo lunghi nastri di colore diverso allacciati alla cima di una pertica ornata con in cima un grosso mazzo di fiori. Occorre ricordare che a quel tempo non era consentito alle donne di esibirsi e quindi anche qui le dame erano uomini che avevano molte difficoltà a camminare con scarpe munite di tacco, anche se non molto alto. Arrivavano preceduti da una piccola banda musicale e si disponevano in cerchio intorno alla pertica e con l’accompagnamento musicale iniziavano a cantare: “Bella spagnola che amo, regina sei dell’amore…”. E intanto, tenendo ciascuno il suo nastro, iniziavano una danza intrecciata che si doveva concludere tracciando intorno alla pertica stessa una trama regolare fino all’esaurimento del nastro. Dopo di che rifare il percorso inverso senza ingarbugliare i nastri. Non sempre si riusciva bene, ma sempre si ricevevano gli applausi del pubblico.
La serata poi proseguiva con la sfilata delle mascherine composta soprattutto da bambine vestite da fatine, damine, ciociare o da ometti e da bambini vestiti da Zorro, Pulcinella, Pierrot o sceriffi. Tra i giovani e gli adulti erano pochi quelli che si avventuravano con qualche damina o invertendo le sembianze del proprio sesso. I ragazzini che non potevano fare altro, si accontentavano di indossare un sacco o la grossa camicia della madre, tingersi la faccia col carbone o indossare una maschera di cartone. Altri, avvolgendosi in un lenzuolo, si fingevano spettri. Chi poteva si rivolgeva a Gioacchino l’apparatore che magari lo trasformava in uno scheletro ambulante, in un diavolo tutto rosso e con le debite corna o, comunque, si industriava di fornirgli un aspetto grottesco usando quei pochi drappeggi che comunemente gli servivano per le “apparate” o per qualche recita di dilettanti.
La serata continuava con lanci di coriandoli e stelle filanti che poi coprivano le strade in tale abbondanza che i bambini più poveri ne facevano ampia raccolta per usarli a loro volta. Tutto però si svolgeva nella massima calma e senza dar fastidio come con gli odierni sistemi di spruzzi di sostanze varie che offendono il vivere civile e i malcapitati presi di mira e che andrebbero proibiti.

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno IV 2007 - n. 3 Marzo)