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Gite e vacanze dei giovani teanesi negli anni '40

 
Poche provviste di alimenti razionati, un telone e qualche spicciolo bastavano a rendere felici
 

Organizzare un agita oggi è affare da poco. Basta accordarsi con quattro amici, scegliere la località da visitare, abbigliarsi secondo il clima e salire in auto o in pullman già organizzati. Per il denaro occorrente non ci sono grandi difficoltà. Anche se ancora si parla di povertà, questa non ha confronto con quella quella dei tempi passati. La povertà di oggi sarebbe stata considerata vera agiatezza settant'anni fa.
Anche allora i giovani anelavano passare qualche giorno in posti nuovi e attraenti e in piena libertà, solo che non avevano grandi pretese nella scelta. Non pensavano neanche di andare all'estero, in luoghi lontani, o di trascorrere le vacanze al mare. Qualcuno conosceva Caserta o Napoli per ragioni di studio; altri, solo perché erano stati a fare il servizio militare in località che diversamente non avrebbero mai conosciuto. I giovani si arrangiavano come potevano, sempre che vi fosse qualcuno, più grande ed esperto, capace di guidarli.
Con noi c'era il buon don Adolfo, che chiamavamo dottore, anche se per motivi di salute non si era potuto laureare. Economicamente agiato, scapolo, intelligente e fattivo, amava la natura e si era assunto l'incarico di farci da guida. Amava riunirci e parlarci, organizzare scampagnate con merenda alla quale ognuno provvedeva come poteva, in natura o in denaro. Io ero onorato di essere stato scelto da lui come moderatore di quelle nostre gite. Voleva che tutto fosse consegnato a me, perché sapevo dosare il consumo delle provviste e soprattutto del vino, che facevo opportunamente sparire quando cominciavano a vedersi gli effetti.
Don Adolfo amava molto la montagna e spesso organizzava delle escursioni che si limitavano ad ascendere Monte Croce o Monte S. Salvatore, sopra Rocchetta. Il giorno stabilito, ci si avviava di buon mattino con abbigliamento pesante e con una frugale colazione che si consumava sulla vetta. Si restava su, a respirare aria di montagna, fino al pomeriggio e verso sera si faceva ritorno a casa, stanchi ma felici di aver fatto qualcosa di diverso. Anche se in quei tempi si andava a piedi, qual piccolo orizzonte delle nostre mete cominciò a sembrarci stretto e si cominciò a pensare di allargarlo.
Con l'aiuto del Dottore, nel luglio del 1940, organizzammo una vacanza al Matese di alcuni giorni. A piedi, con equipaggiamento arrangiato, carichi di fardelli, ci avviammo per la prima avventura fuori dalla nostra zona abituale. Portavamo sulle spalle un po' di tutto, a cominciare da un pesante telone di tela cerata, di quelli che si usavano per le baracche al mercato, e ancora corde, coperte, pentole e borracce. Portavamo con noi anche il cibo che allora era razionato e, per averlo, avevamo dovuto ricorrere a certi espedienti.
Giungemmo a Piedimonte verso la mezzanotte e riposammo sotto un albero fino all'alba, quando riprendemmo la marcia fino al lago. Stendemmo le corde tra gli alberi in prossimità della riva e vi adagiammo sopra il telone, poi subito a preparare un pranzo capace di saziare la gran fame che avevamo. Vi stemmo sette giorni che trascorremmo interamente tra escursioni e bagni nel lago. Finite le scorte di cibo riprendemmo la via di casa con il fermo proposito di tornarci anche l'anno successivo.
Puntuali, a luglio del 1941, ci ritrovammo per ripetere l'esperienza. Incontrammo molte difficoltà nel fare provvista dei viveri, ma anticipando l'impiego dei bollini della tessera annonaria riuscimmo a mettere insieme lo stretto necessario. Quindi, in un tardo pomeriggio, carichi di bagagli, ci mettemmo in marcia. È vero che l'abbigliamento non era proprio consono alla spedizione, ma ci sembrò che la gente non ci guardava con simpatia, come nella marcia precedente, ma con un certo sospetto e capimmopresto la ragione.Era cominciata a circolare la voce di avvistamenti notturni di stormi di aerei e c'era il timore di lanci di paracadutisti. Perciò il governo aveva mobilitato la Milizia, La M.V.S.N., che faceva da vedetta in punti strategici. Noi, incuranti, giungemmo in piena notte alle falde del Matese e ci accampammo. All'alba eravamo ansiosi di iniziare la scalata. Decidemmo però di seguire un percorso diverso. L'anno precedente avevamo scoperto che dalla vallata saliva al lago una lunga scalinata. Al centro dell'ampia scalinata correva un grosso tubo che portava l'acqua del lago ad un opificio in pianura. Ci incamminammo a fatica ma di buon umore che prestò cambiò perché dall'altro lato della scalinata, oltre il tubo, ogni tanto faceva capolino una testa che affiorava fino all'altezza degli occhi e subito scompariva. Preoccupati, facemmo varie ipotesi, ma nessuna esatta. Al termine della scalinata ci trovammo circondati da cinque uomini in divisa che ci intimarono di fermarci spianandoci contro i loro vecchi moschetti. Io, trovandomi più arretrato, feci in tempo a nascondermi dietro un cespuglio e non fui notato. Gli altri furono condotti in una casetta che fungeva da caserma.
Attesi qualche minuto per vedere cosa succedeva, poi mi avvicinai cautamente alla finestra del piano terra dal quale veniva un concitato vocio. Sentii che chiedevano i documenti, che però nessuno aveva. Volevano sapere anche il motivo della nostra presenza in quel luogo. Allora mi posi davanti alla finestra per farmi notare dai militi, ai quali dissi che non eravamo paracadutisti ma solo dei ragazzi di Teano che volevano passare qualche giorno tra i monti. Quello che sembrava un dramma finì presto in risate e i militi ci rifornirono anche di acqua potabile. Trascorremmo anche quell'anno una lieta vacanza.
Avevamo programmato per l'estate del 1942 escursioni più lunghe ed ardue, ma fui spedito verso ben altre escursioni, sulla torretta di un autoblindo, tra i monti della Croazia.

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno III 2006 - n. 9 Settembre)

L'autore dell'articolo (in piedi) con le sorelle e Gerardo palmieri sulla spiaggi di Scauri negli anni '30