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Bambini di una volta (I parte)

 

I bambini di oggi non sono felici. E non perché manchino di qualcosa, anzi, proprio perché hanno tutto e non hanno la necessità di affezionarsi ad alcunché di particolare.
Fin dalla nascita sono sommersi da giocattoli d'ogni genere che aumentano al momento del battesimo, poi ad ogni compleanno e poi a Natale, alla Befana, alla prima comunione, che i genitori si sentono ormai obbligati a celebrare con festini simili a quelli matrimoniali fino al punto di ricorrere al mutuo in banca per non sfigurare, togliendo ai bimbi la gioia di celebrare la ricorrenza in letizia coni propri coetanei e costringendoli al rigido cerimoniale del banchetto.
I regali sono tanti che non sanno più dove metterli o quale scegliere per i loro giochi. Stando poi le molteplici occupazioni dei genitori e la quasi impossibilità di scendere a giocare per le strade, passano il loro tempo libero accovacciati dinanzi ai videogiochi, al computer od agli stereo, mangiucchiando o sorseggiando merendine, bibite e dolcetti di ogni genere. E ingrassano…e diventano obesi ed a niente vale la palestra o la piscina o la lezione di danza.
All'avvicinarsi dei 14 anni pretendono il motorino come i loro amici, e poi l'auto, ed a piedi non cammina più nessuno.
I bambini di una volta erano felici del loro niente: bastava un campanellino, una trombetta, un tamburino per i loro primi trastulli: Poi le bambine, stimolate dal loro innato senso materno, incominciavano a simulare delle bamboline avvolgendo delle pezzuole e cingendole con laccetti colorati, e le stringevano al petto per tutto il giorno. Certo desideravano una vera bambola, ma bisognava attendere e meritarla: e in questo desiderio una parte della loro felicità.
I bambini si industriavano a costruire giocattoli con tutto ciò che riuscivano a trovare in casa. Poi si recavano alla più vicina bottega di falegname a raccattare i “tacculigli”, quei pezzetti di legno che l'artigiano segava dalla sagomatura delle assi occorrenti all'opera che aveva in corso. In casa si trovava sempre un martello e qualche chiodo per costruire un carrettino al quale si applicava, come ruota, il rocchetto del filo per cucire. Mancava sempre il cavallino, ma non la speranza di ottenerlo.
Le une e gli altri speravano nella befana e la sera del 5 gennaio appendevano fiduciosi la loro calza più grande nella speranza che la buona vecchietta li accontentasse. Ma la cara vecchietta non aveva molti mezzi e la mattina del 6 gennaio la calza conteneva solo qualche mandarino, due fichi secchi, delle nocciole, raramente qualche caramella e, immancabilmente, un pezzo di carbone ed un cartoccio di cenere, allora presenti in ogni casa, per indicare che, nonostante i buoni propositi, non si era meritato di più.
Ma poi veniva la festa di Sant'Antonio ed i bambini fremevano per andare a vedere la fiera e là, davanti ad una bancarella ed a seguito di un lungo piagnucolio, la bimba otteneva la sua bambolina di pezza ed il bambino il suo cavalluccio di cartapesta.
Felici tornavano a casa facendo mostra del loro tesoro. La bambina subito si dava da fare per preparare i vestitini ed il lettino per la sua figlioletta che non abbandonava neanche la sera quando andava a dormire. I bambini si industriavano ad adattare il carrettino alle nuove esigenze e con un filo di spago trainavano, orgogliosi, l'insieme lungo il marciapiedi davanti casa.
Ma, si sa, i bambini crescono e diventano ragazzi. Bisognava allora trovare altri spazi. Si formavano gruppi di bambine che con le “pazzielle” (quei piccoli utensili in miniatura di creta che ricevevano dal cenciaiolo in cambio degli stracci che avevano all'uopo conservato) inventavano rivendite o cucine all'aperto, o giocavano a “campana”.
I bambini si dedicavano a giochi che richiedevano movimento: i più fortunati rimediavano quattro bocce in disuso o sostituivano queste con piastrelle e giocavano a “pressole”.
Ma per correre e sbizzarrirsi occorreva la palla: se qualcuno ne disponeva, bene, se no, quattro stracci e dei giornali arrotolati con della corda e via a fare bagarre nel vicoletto.
Il gioco classico era, però, quello delle palline, anche perché era difficile possederle e chi più ne aveva, più era considerato. Queste infatti bisognava ricercarle nei frantumi delle bottiglie di gassosa presso la locale fabbrica. Esse facevano da tappo automatico ad un singolare tipo di bottiglia che aveva una strozzatura sotto il collo; in essa era inserita una pallina alla quale veniva impedito di uscire da una guarnizione di gomma. La bottiglia veniva riempita a pressione, in posizione capovolta, in modo che dopo il riempimento veniva spinta verso la guarnizione tappando la bottiglia: al momento di bere era necessario esercitare una forte spinta col dito medio sulla pallina per dare sfogo alla forza gassosa della bibita e permetterle di uscire.
Molte volte, nella fase di riempimento, la bottiglia scoppiava e veniva gettata nei detriti.
Spesso si restava di posta ad aspettare uno scoppio per ricavarne una pallina.

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno II 2005 - n. 6 Ottobre)

 
Una foto d'anteguerra della fabbrica Giacca che produceva la gazzosa nelle bottigline con "la pallina" rievocate nell'articolo