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Artigianato, addio (I parte)

 

Si sa che Teano non ha mai avuto fonti di reddito stabile che aiutassero la sua economia. Non vi erano fabbriche od opifici e il desiderato posto fisso era costituito solo dai maestri della scuola elementare e della cosiddetta scuola complementare, dagli impiegati del Comune, dai pochi impiegati dell'Ufficio del Registro e delle Imposte, dai dipendenti del dazio e quelli della pretura.
Quindi la nostra economia si reggeva sull'agricoltura e l'artigianato, le fiere ed il mercato settimanale. Ma parlare di economia agricola è alquanto esagerato perché i contadini, quasi tutti affittuari o mezzadri, tendevano solo a produrre quanto era necessario a soddisfare i loro bisogni familiari, all'allevamento del poco bestiame ed a far fronte alle spese di conduzione.
C'era però una fervente attività ortolizia per cui i mercati erano alimentati solo da prodotti dei nostri orti. Ma c'era l'inconveniente dell'irrigazione.
Essa era basata sull'utilizzazione delle acque reflue e, giacché allora non erano diffusi gli impianti domestici e le molte fontane pubbliche fluivano continuamente giorno e notte, queste acque venivano sapientemente utilizzate dagli ortolani che, stabiliti i turni di utilizzo, provvedevano, ciascuno al momento giusto, ad andare a deviare il corso d'acqua da un canaletto all'altro nelle apposite botole esistenti nei punti strategici che insistevano nelle zone di loro competenza.
Poi i cittadini vollero l'acqua in casa e di conseguenza trasformarono il loro pozzo nero, che aveva fino ad allora imperato, in bagno più o meno moderno che defluiva nelle fogne inquinando le acque reflue che divennero non più igienicamente compatibili con l'irrigazione degli orti.
Qualcuno tentò d'istallare un depuratore, qualche altro scavò un pozzo, ma la quasi totalità dovette abbandonare la sua attività perché, essendo fittavola, non ebbe il sostegno del proprietario del terreno che approfittò del caso per avere libero il fondo che gli rendeva di più come area edificabile.
E sparirono anche gli orti.
Restava però l'artigianato che era molto fiorente ad apprezzato: c'era lo stagnino che fin dalle prime ore del mattino parava a festa la sua bottega appendendo ai numerosi chiodi infissi nella porta e sui muri i molti prodotti della sua attività: teglie rotonde o quadrate, mestoli e schiumarole, bugie, lucerne, lanterne, passaconserva e colabrodo; ben ordinati sul pavimento il quartarone ed i suoi sottomultipli per il vino, lo staio e lo “ziro” per l'olio.
Poi accendeva il fuoco della sua piccola fornace e si dedicava alla riparazione degli oggetti portati dai clienti e saldava le scollature e tappava i fori degli stessi fino a tarda sera.
C'era il ramaio o “caurararo” che, oltre a vendere i pregiati prodotti della nostra ramiera, si dedicava principalmente a rifare la stagnatura interna delle caldaie e pentole, ma tappava anche i buchi in esse prodotte applicandovi una toppa esterna. E siccome i clienti volevano che la toppa fosse duratura, la fornivano essi stessi: Non si scandalizzino i numismatici se rivelo che esse erano costituite da vecchie monete di rame del regno borbonico o angioino, dello stato pontifico o di qualche altro staterello sparito con l'unità d' Italia. Di queste se ne trovavano a iosa ed i bambini vi giocavano chiamandole genericamente soldi papalini.
Ma questi artigiani erano anche abili a riparare le crepe dei tegami in terracotta. Applicavano esternamente ai lati della fessura una graffetta di fil di ferro ed il tegame resisteva tanto che si era soliti dire: “a' pignatta rotta gira semp pà casa”.
E' opportuno ricordare che, un tempo, tutti gli utensili di cucina erano di rame e questi stavano a dimostrare l'agiatezza della famiglia. Già nei giorni precedenti le nozze la sposa era tenuta, per prassi, ad esporre, oltre alla sua dote in biancheria, classificata in panni cinque, o panni dieci o panni dodici a seconda delle possibilità, anche il corredo in rame di cucina alla verifica dei parenti dello sposo ed alla curiosità delle amiche della sposa, con relative valutazioni e commenti.
Poi, sul muro più in vista della cucina, veniva infissa una rastrelliera alla quale erano appesi i vari pezzi in rame, a volte anche di raro uso: erano la dimostrazione della opulenza o delle ristrettezze della famiglia. Però il rame, col tempo, formava una patina verdastra di ossidazione, ed almeno una volta l'anno bisognava lucidarlo: un bel da fare per la famiglia che si dedicava a questo faticoso compito e a furia di cenere, limone ed ...olio di gomito ridava a tutto il primitivo splendore.

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 11 Novembre)