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Teano pioniera dell'illuminazione elettrica

 

Premere il pulsante della luce, della radio, del televisore o di qualunque altro elettrodomestico oggi è diventata una cosa ovvia, scontata, quasi naturale come fosse sempre esistita. Anzi, l'invadente pigrizia ha indotto l'uomo ad inventare il telecomando onde evitare l'incomodo di alzarsi dalla poltrona per compiere quel semplice gesto.
Ma ci si domanda mai quali erano, a tal proposito, le condizioni di vita della nostra gente fino a quasi un secolo fa?
Naturalmente di radio, di televisione e quant'altro non si supponeva neppure la possibilità di esistenza, ma l'esigenza di qualcosa che rischiarasse almeno il buio della notte per non inciampare o sbattere nel cercare la via per andare a letto, era molto sentita.
E allora come fare?
Sulla parete accanto alla porta d'ingresso invece del pulsante della luce c'era una mensoletta o un piccolo rustico mobiletto sul quale era appoggiata una bugia con un mozzicone di candela o una lucerna ad olio e l'indispensabile scatola di zolfanelli. Indispensabile perché di quelli si faceva grande uso. Ricordo che le contadine venute al mercatino giornaliero per vendere le uova risparmiate durante la settimana, quasi a giustificarsi, dicevano: è per comperare il sale ed i fiammiferi!
Verso sera la buona massaia del rango meno abbiente si preoccupava di sborsare otto soldi per darli ad uno dei figli con l'incarico: vai a comprare il cerogeno (piccola candela). Perché era necessario fare anche un po' di luce per la cena, o per il Rosario, se d'inverno, attorno al braciere che scaldava i piedi ma non le gelide lenzuola del letto; e non essendoci altro modo per ingannare il tempo, tutti a letto!
E le famiglie crescevano!
Mi sovviene di una mamma che, qualche decennio fa, recatasi dalla maestra di uno dei suoi figli, cercò di giustificare la scarsa cura che aveva di lui dicendo che non poteva fare di più perché di figli ne aveva tanti. E quando la maestra le chiese quanti fossero, rispose: Signo' so' cinque, ma pecchè a' maste m'ha aiutato, o sinnò fossero otto.
Per avere un punto di riferimento durante la notte, chi poteva teneva un lumino acceso davanti ad una immagine sacra.
Naturalmente le famiglie agiate avevano candelabri con più candele, portatili o attaccati al muro; per esse fu più facile passare all'uso del lume a petrolio che era più elegante, faceva più luce, ma emanava anche un fil di fumo con odore non sempre gradevole.
E l'illuminazione pubblica?
Era costituita da lampioni a gas, installati nei punti strategici delle strade e delle piazze. Delle forme imitate dagli attuali lampioni del nostro centro storico, erano collegati ad un piccolo serbatoio che il “lampionaro” si curava di fornire giornalmente di acqua e carburo.
Poi, all'imbrunire, mediante uno stoppino posto in cima ad una canna, li accendeva così come molti avranno visto fare ai sacrestani fino a quando gli altari erano illuminati dalle candele.
Poi la grande scoperta: la luce elettrica! E subito Napoli celebrò l'avvenimento cantando:
Che comode che songono
ste lampadine elettriche:
s'appicciano, se stutano
se tornano a appiccià….

Naturalmente l'estensione dell'uso di questa energia non fu immediato; bisognava costruire le centrali, le reti di distribuzione, i sistemi di misurazione e di pagamento.
Ma Teano non si fece sorprendere, anzi fu pioniera almeno nell'alto casertano.
Infatti, per una felice iniziativa della ditta Fardella, non solo ebbe modo di giovarsi dell'innovazione, ma addirittura creò la sua fonte di energia elettrica; la ditta ebbe l'intuizione di sfruttare, a tale scopo, le acque del Savone e costruì una piccola centrale a monte del mulino degli Svizzeri.
La produzione, però, era limitata e, dopo aver alimentato la pubblica illuminazione, diventava ancora più esigua. Ma i cittadini più agiati, i commercianti e gli artigiani si affrettarono a chiederne l'utenza.
Allora fu stabilito che ciascun utente potesse avere una sola lampada per ogni ambiente ammesso alla utenza, che dette lampade fossero di 16 candele, appositamente costruite di quel wattaggio, e che il canone fosse forfetario, in quanto tale corrente veniva erogata solo dall'imbrunire all'alba, in relazione alla luce del giorno.
Nonostante queste limitazioni i vantaggi erano enormi, anche se l'erogazione della corrente, bei giorni più bui a volte ritardava. Ed allora i commercianti e gli artigiani dovevano sospendere le loro attività in attesa della benedetta luce; occasione buona perché tutti uscissero sui marciapiedi e si scambiassero idee o amenità.
Quando poi la corrente tardava ad arrivare, incominciavano a chiederne il motivo agli organi competenti, e la risposta era quasi sempre la stessa: è andato un capitone nella turbina e l'ha bloccata!
Qualche volta era anche vero perché a quel tempo di capitoni e trote ce n'erano nella “chiare fresche e dolci acque” del Savone e deliziavano anche noi ragazzi che andavamo (di nascosto) a bagnarci nelle nostre spiagge di “Pretaliscia “ e di “Catarattone”.
Poi, quasi a sorpresa, i lampioni pubblici si illuminavano a un coro di oh!oh!oh!... accoglieva l'evento. Allora ciascuno tornava al lavoro usato e col Leopardi potevamo osservare come i “fanciulli sulla piazzola in frotta qua e là saltando fanno un lieto romore”.

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 9 Settembre)