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Il nipote di Rameau: dialogo improponibile del “filosofo”

 

Martedì 15 gennaio 2013 nell'Auditorium di Teano intitolato a Monsignor Tomasiello è stato presentato di dialogo filosofico “Il nipote di Rameau” di Denis Diderot (1713-1784).
Tra gli infreddoliti spettatori e quelli sonnecchianti, una ottima interpretazione di Silvio Orlando, che ne è anche il regista, di Amerigo Fontani e Maria Laura Rondanini ed il clavicembalista Simone Gulli.
Il grande illuminista Denis Diderot fu il “filosofo” per antonomasia nel Settecento. Lavorò per vent'anni alla Encyclopédie alla quale deve la sua fama. Caterina II di Russia – a cui aveva venduto la propria biblioteca per dotare la figlia - gli elargiva uno stipendio con l'obbligo di comperare libri che, dopo la sua morte, sarebbero passati alla biblioteca imperiale. L'altro grande stipendiato era Voltaire per le funzioni di consigliere.
Ingegno multiforme, Diderot in Il nipote di Rameau dipinse un ritratto tumultuoso della sua vita e della sua arte nel 1761. Capolavoro satirico il dialogo è la parabola grottesca di un musicista fallito, cortigiano convinto, amorale per vocazione avvolto in un lucido intensa brama di annullarsi (cupio dissolvi). Nella sua imbarazzante assenza di prospettive edificanti, nella riduzione della vita a pura funzione fisiologica riesce in maniera paradossale a ribaltare la visione del bene e del male, del genio e della mediocrità, della natura umana e delle possibilità di redimerla.
Rameau si è offerto attraverso i secoli come un nitido archetipo di libero servo, innocua foglia di fico per padroni a tolleranza variabile. Scorgiamo dietro la sua perversità le paure del filosofo di perdere sé stesso e i propri riferimenti etici nell'affrontare un primo embrione di libero mercato delle idee che intuiva stesse nascendo in quel turbolento e fervido scorcio di secolo.
Così il libretto dell'opera. Rameau era un famoso compositore morto nel 1764.
Il nipote, un musicista fallito, cortigiano convinto, cattiva coscienza della società parigina del tempo; che attacca con violenza e derisione i salotti culturali, la corte, i ministri lecchini, il clero. Sprofondò nell'inettitudine bohémienne e nell'immoralismo autodistruggente. Un uomo che aveva bevuto la vita fino alla feccia e ora chiedeva amaramente vino; già molto agiato e partecipe di ogni comodità, ricevuto una volta in tutte le case eleganti, ora nella miseria e nella degradazione, viveva di pranzi misericordiosi e di prestiti dimenticati, non vedeva altro che lotte e sconfitte, respingeva ogni religione come una bella e terribile menzogna, considerava ogni morale come debolezza e simulazione e nello stesso tempo conservava abbastanza del suo passato per ammantare la sua disillusione di elevata eloquenza. La sua tragedia stava nel fatto di non credere a niente. Meglio tener segreto il testo e pubblicarlo dopo la morte: troppo polemico non solo con gli anti Enciclopedisti e troppi nemici in vista. La figlia di Diderot provvide ad epurarlo.
Il nipote di Rameau (LUI nel testo) è lo specchio di Diderot (IO nel testo). Il dialogo si svolge tra LUI ed IO. Ecco perché il protagonista è disegnato con colori tanto vividi: perché si annidava in lui stesso!

Diderot quasi in ogni campo fu il pensatore più originale del suo tempo. Rousseau disse che si sarebbe guardato a lui come noi oggi guardiamo a Platone ed Aristotele. E la salottiera M.me Geoffrin che lo conosceva a fondo lo riteneva un uomo che sogna e crede che i suoi sogni siano veri.

Lucio Salvi
(da Il Sidicino - Anno X 2013 - n. 2 Febbraio)