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L'alta Terra di Lavoro non votò per i Savoia

 
Il plebiscito del 1860...
 

Il 26 ottobre del 1860, a Teano o lì nei pressi, Garibaldi fu costretto a deporre nelle mani di Vittorio Emanuele l'Italia meridionale con tutta la sua storia e i suoi immensi depositi monetari che i sovrani napoletani avevano accumulato nel corso degli anni. In seguito, deluso per come le cose stavano procedendo, quasi di soppiatto per non fare rumore (si congedò dai suoi soldati da solo e senza squilli di tromba, con Farini che giunse persino a proibire il famoso inno temendo disordini e sommosse popolari), si ritirò nella selvaggia quiete di Caprera. Il 7 novembre, sotto una pioggia battente che distrusse gli archi trionfali di cartapesta preparati per l'occasione, infausto presagio dell'immane sciagura che si stava abbattendo sul meridione, il monarca torinese faceva il suo ingresso a Napoli. Esaurita la parentesi borbonica iniziava quella sabauda. A pensarci bene niente di troppo sconvolgente: la popolazione “napolitana” era abituata a cambiare padroni con disarmante disinvoltura. Questa volta, però, la cosa era grossa. Uno stato era stato aggredito e militarmente occupato. Un legittimo sovrano costretto a lasciare il suo regno in barba alle più elementari norme di diritto internazionale e con la palese connivenza delle maggiori potenze europee, Inghilterra e Francia in prima fila. Anche i “conquistadores” scesi dal nord si resero conto che l'invasione andava legittimata, ammantata di una parvenza di legalità. Non si poteva abbattere una dinastia regnante e sostituirla impunemente con un'altra mancando l'investitura dei “sudditi” che quel territorio abitavano. Vittorio Emanuele non poteva impadronirsi del sud senza prima ottenere il parere favorevole da parte della popolazione. Fu così che la mente fervida di Camillo Benso conte di Cavour partorì l'idea del plebiscito. Un'esigua fetta di meridionali, all'incirca un quarto dell'intera popolazione, fu chiamata a pronunciarsi sull'annessione dell'ex regno borbonico allo stato sabaudo. Le votazioni si svolsero il 21 ottobre del 1860, cinque giorni prima del cosiddetto incontro di Teano. Si trattò di una gigantesca messinscena, molto ben organizzata e abilmente portata a termine. Schiacciante la maggioranza dei favorevoli all'accorpamento: 1.302.724 “si” contro appena 10.328 “no”. La percentuale delle astensioni fu assai elevata. L'ambasciatore inglese Elliot riferì al suo governo che “i risultati del plebiscito rappresentavano appena il 19 % degli elettori”. Buona parte degli aventi diritto, insomma, non si recò alle urne. Se poi si considera il numero assai limitato di essi (si votava su base censuaria), si comprende come un esiguo manipolo di persone, peraltro debitamente indottrinate, abbia avallato una decisione così importante per il meridione d'Italia. Ammesso poi che quella votazione-farsa sia stata così determinante al riguardo. Comunque agli occhi dell'opinione pubblica, specialmente straniera, la legittimazione era stata ottenuta. Il risultato era stato raggiunto così come auspicava il prodittatore Giorgio Pallavicini in una lettera inviata il 12 ottobre ai governatori delle province meridionali: “La più bella accoglienza che noi possiam fargli è quella di proclamarlo con libero ed unanime suffragio Re d'Italia”. Tutto fu architettato a dovere e dal voto non vennero fuori (né potevano venire) spiacevoli sorprese. Anche perché le consultazioni si svolsero in un'atmosfera di pesante intimidazione con i votanti che entravano nella stanza delle urne in mezzo a due ali di garibaldini minacciosi che controllavano ogni cosa. Il voto, poi, non fu segreto ma palese e perciò facilmente controllabile. Nella sala vi erano “su di un apposito banco tre urne, una vuota nel mezzo, e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bullettini col sì, e nell'altra quelli del no, perché ciascuno votante prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell'urna vuota”. Il votante, quindi, compiva il suo dovere senza alcuna garanzia di libertà di espressione. I “bullettini” che portavano già prestampato il “no” erano di colore bianco mentre quelli con il “sì” di colore rosa: il che rendeva ancora più riconoscibile il voto. Alla fine delle operazioni non vi fu alcuna corrispondenza tra iscritti nelle liste elettorali e votanti, senza considerare che lo scrutinio, un po' ovunque, fu grossolanamente falsato. Ma, e qui viene il bello, in alcune province dell'ex regno di Napoli non fu possibile chiamare i cittadini al voto. Come nella fascia di Terra di Lavoro al di là del Volturno, ancora presidiata dalle truppe borboniche. Sui 238 comuni le operazioni di voto si svolsero soltanto in 89. Nella parte più settentrionale della stessa, da San Germano (l'odierna Cassino) a Sora, dove gli insorgenti filo-borbonici la facevano da padrone non essendo i soldati sabaudi ancora arrivati, non vi fu alcun plebiscito. I cittadini di quei paesi non vennero chiamati alle urne per esprimere il loro parere. E, qualora si fosse votato, non avrebbero avuto difficoltà a pronunciarsi contro l'annessione. Non è un caso che in questa striscia di territorio a confine con lo Stato della Chiesa il fuoco del brigantaggio sia divampato vigoroso e inarrestabile per l'intera durata del decennio post-unitario. Con il plebiscito, dunque, i Savoia ottennero la legittimazione formale ad insediarsi nell'Italia meridionale. Si trattò, però, di un'operazione torbida, per niente democratica, una volgare macchinazione. La gran parte della popolazione del sud, quella che non votava perché non aveva niente, quella abituata a spezzarsi la schiena per lavorare una terra che era sempre di altri, gli “stranieri” piemontesi proprio non li voleva. E se con i Borbone non se la passavano bene, con i nuovi governanti, arroganti e prepotenti, finirono per stare decisamente peggio. Per questo in tanti salirono la montagna, impugnarono lo schioppo e diventarono briganti. E quando nel 1870 o giù di lì il fuoco della rivolta fu domato, presero la misera valigia di cartone e partirono verso terre lontane e inospitali piuttosto che sottomettersi ad un re straniero di cui non riuscivano a capire neanche la “parlatura”. Da briganti diventarono emigranti. Alla faccia del plebiscito, quel maledetto imbroglio.

Fernando Riccardi
(da Il Sidicino - Anno VII 2010 - n. 1 Gennaio)

Piazza del Plebiscito - Napoli