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La chiesa di S. Benedetto: un restauro incompiuto (*)

 
Foto 1 – Chiesa di S. Benedetto, fronte (1968)
 

Agli inizi degli anni cinquanta del Novecento, la signora Angelina Parente, sorella dell'avvocato Pasquale Parente, ispettore dei monumenti per la provincia di Caserta, in una missiva indirizzata al ministro pro-tempore della Pubblica Istruzione segnalò che la chiesa di S. Benedetto, adiacente all'abitazione del marito, versava in un evidente stato di degrado, da ascriversi soprattutto all'incuria. A suo giudizio, le pessime condizioni di conservazione interessavano, in particolare, il tetto e la volta della navata centrale, lesionata in chiave. Ritenne, altresì, che i danni avrebbero potuto essere riparati con l'esborso di 200.000 lire, spesa che non poteva sostenere, sollecitando l'intervento del ministro. Dopo alcune settimane, il Ministero invitò il soprintendente Antonino Rusconi (che resse la Soprintendenza campana nel periodo 1949-55) a «fornire, con il proprio parere, opportune notizie con cortese sollecitudine» in ordine all'eventuale necessità di un restauro.
Al volgere del 1952, Rusconi relazionò sull'edificio sacro, riportando che era coperto con una «goffa sovrastruttura barocca»; ribadì anche che, essendo lo stesso ritenuto di proprietà privata, sino ad allora non era stata presa in considerazione la possibilità di intervenire. La relazione si concludeva riferendo che la chiesa era stata «purtroppo trasformata con la chiusura di due campate delle navi laterali e con la costruzione di pesanti volte su tutte le tre navate, con la conseguenza che a causa della spinta delle volte stesse le strutture (...) sul lato sinistro, che non trovano alcun appoggio o contrasto sono fortemente dissestate; in particolare il muro esterno della navata sinistra presenta uno strapiombo molto sensibile». A tal uopo, riferì di aver chiesto informazioni in ordine al regime di proprietà della chiesa al vescovo di Teano per il tramite del rettore del seminario locale e di non aver avuto risposta in proposito. Dopo il nulla di fatto, si dovette attendere sino al 1967 affinché il destino della chiesa tornasse a suscitare interesse.
Il 3 agosto di quell'anno, infatti, il presidente pro-tempore dell'Ept, l'avvocato Francesco Monti, chiese alla Soprintendenza l'autorizzazione per inserire un'immagine dell'interno della chiesa negli “Intervalli RAI”. Il 19 ottobre il nuovo soprintendente Armando Dillon, che considerò la chiesa «un importante quanto raro monumento di epoca longobarda in Terra di Lavoro», sostenne l'impossibilità di inserirne vedute negli intervalli televisivi se prima non si fosse «provveduto ad un restauro che la liberi della banale decorazione ottocentesca e che ripristini le eleganti forme dell'architettura altomedioevale».
Questo giudizio, al tempo già decisamente inattuale, in linea con quello espresso dal predecessore Rusconi, rappresentò purtroppo la motivazione del restauro “di liberazione” che la struttura avrebbe di lì a poco subito. I lavori furono inseriti nel programma di attività del 1968, senza giovarsi di un progetto, ma soltanto di una perizia, datata 30 marzo 1968, che contemplava i seguenti interventi: «rifacimento del tetto rovinato e consolidamento delle strutture portanti; liberazione delle volte dalla banale decorazione», prevedendo, per la realizzazione del primo lotto, un importo di quattro milioni di lire. Progettista e direttore dei lavori fu l'architetto Margherita Asso, impegnata nello stesso periodo in numerose intraprese di restauro di monumenti di Terra di Lavoro.
La relazione al progetto chiarisce la posizione della restauratrice circa la necessità di leggere a fondo le stratificazioni della chiesa, a suo giudizio probabilmente risalente all'epoca longobarda, ma ormai caratterizzata da una configurazione sette-ottocentesca. Per di più vi era da riscontrare l'eventuale sussistenza in loco di strutture superstiti, appartenenti ad un monastero benedettino. La Asso cercò di datare l'edificio sacro, che considerò dapprima risalente alla seconda metà dell'XI secolo, mettendolo in relazione a strutture leborine di impostazione desideriana, quali S. Angelo in Formis e S. Benedetto a Capua, S. Pietro ad Montes a Caserta e S. Maria in Foro Claudio a Carinola. In seguito, quello che definì «un esame un po' più attento del monumento», unito ad «una ricerca, per il momento sommaria, di notizie storiche», le fece cambiare idea, facendola propendere per una datazione anteriore, riferibile alla metà dell'VIII secolo. Purtroppo, dai documenti d'archivio non risulta che sia stato approfondito questo filone di ricerca, che avrebbe potuto offrire significative informazioni circa la complessa articolazione della struttura e delle sue probabili pertinenze.
La suddetta relazione fa comprendere come la Asso nutrisse serie preoccupazioni per le condizioni statiche dell'edificio, nel quale riteneva fossero presenti evidenti cinematismi interessanti diversi muri. Riferendosi alle condizioni delle capriate, inoltre, osservò: «evidentemente negli ultimi decenni (o addirittura nell'ultimo secolo) sono stati eseguiti rifacimenti della struttura del tetto da persone incompetenti che - mantenendo inalterato l'appoggio delle falde sulla trave di colmo - hanno rialzato l'altro appoggio in modo che la piccola orditura non si appoggia sulla capriata, ma è indipendente da essa scaricando il peso del manto di copertura direttamente sui muri longitudinali». Chiarì quindi che, «individuata la causa del dissesto, l'intervento è semplicissimo: si tratta di smontare il tetto e di riscostruirlo, sostituendo anche gli elementi delle capriate ormai parzialmente marciti e deteriorati dalle infiltrazioni d'acqua», non mancando di ribadire che «in questa occasione verrà esaminata anche l'opportunità di demolire la volta, certamente non originale». La restauratrice riteneva che la sua demolizione fosse necessaria, perché le avrebbe consentito «di riaprire le finestrelle ad arco della chiesa medioevale, chiudendo quelle brutte, sgraziate del secolo scorso e di rimettere in vista le capriate, secondo lo schema tradizionale delle chiese medioevali della Campania».
Insomma, si profilava un vero e proprio piano di demolizione, ad esclusivo danno delle stratificazioni moderne della chiesa, in linea con quanto spesso avveniva in quegli anni, soprattutto ad opera delle soprintendenze. Per converso, quasi a considerare troppo ardita la volontà di abbattere la volta, subito dopo affermò la necessità, prima di procedere, di effettuare «saggi nell'intradosso, per accertare che non ci troviamo invece di fronte ad un organismo da conservare». Tuttavia, avendone verificato la presunta origine ottocentesca, fece demolire il tetto e la volta sottostante. La relazione si concludeva precisando che il primo lotto dei lavori avrebbe previsto anche la spicconatura dell'intonaco e degli stucchi ottocenteschi, riferendo che «la struttura originale della chiesa che apparirà ci permetterà di studiare meglio sia il monumento, che verrà anche rilevato graficamente, sia un eventuale successivo intervento di restauro». Ciò senza preoccuparsi del fatto che, una volta spicconato l'intonaco e rimossi gli stucchi, si sarebbe distrutto l'interno di matrice sette-ottocentesca. Il 13 maggio 1968, dopo aver registrato l'approvazione, da parte del Ministero, della perizia di spesa, il soprintendente Dillon comunicò alla curia arcivescovile di Teano la volontà di eseguire, entro breve tempo, i lavori di liberazione, aggiudicati, dopo alcune settimane, all'impresa Modugno di Capua. I lavori terminarono nel novembre 1968.
Attraverso l'analisi della documentazione di progetto del primo lotto, l'unico eseguito, si comprende come gli interventi di demolizione fossero assolutamente prevalenti e non affatto dipendenti dall'accertamento sullo stato delle strutture, interessando non soltanto il vecchio tetto, ma anche la volta tardobarocca e la liberazione delle piccole monofore medievali laterali e quelle poste in facciata.
Margherita Asso informò di aver operato, dopo la rimozione del tetto, il raddrizzamento meccanico dei muri longitudinali della navata centrale con l'utilizzo di tiranti in ferro e la sostituzione, dopo averne analizzato lo stato di conservazione, di quelle che definì «antiche capriate» senza però ipotizzarne alcuna datazione; infatti, anche se finemente intagliate nel monaco, nei saettoni e nelle mensole di appoggio, non le considerò in condizioni tali da poter essere conservate, essendo quasi del tutto marcite. La restauratrice informò che le stesse, «rilevate accuratamente nelle misure e negli intagli, sono state riprodotte da un artigiano, incidendovi sopra la data 1968», segnalando di essere riuscita a riutilizzare soltanto le originarie mensole di appoggio come elementi decorativi, «eliminando il tratto marcito che entrava nella muratura e avvitandole sotto alle capriate».
Ulteriore intervento consistette nella completa rimozione del pavimento, realizzato con mattonelle esagonali, ascrivibile al 1928, per poter individuare l'originaria quota di calpestio della chiesa, posta a circa 25 cm più in basso e far riemergere le basi delle colonne. La speranza della restauratrice, invero, era di rinvenire un pavimento più antico, come era avvenuto nell'abside centrale, dove aveva ritrovato un piccolo tratto superstite di una pavimentazione in elementi di marmo bianco e nero intarsiato.
Grande fu la sua delusione allorquando, rimosso il pavimento novecentesco, emerse «un semplice battuto di lapillo, per di più rotto in vari punti da una serie di canaletti eseguiti forse allo scopo di aerare il sottofondo del pavimento del 1928». Masso di lapillo che costituiva proprio il pavimento antico che cercava, ma al quale non aveva attribuito, evidentemente, il giusto valore. Fortuna volle, però, che i lavori condotti nella chiesa per abbassare il piano di calpestio coincisero con la sistemazione dell'impianto fognario da parte del Comune, che aderì alla richiesta della Asso di abbassare alla stessa quota anche la piazzetta antistante alla chiesa.
La necessità di abbassare anche la soglia d'ingresso, sacrificando in tal modo il portone, fu risolta con un intervento di sostituzione; in luogo del vecchio portone, liquidato come fatiscente, ne fu installato uno nuovo, in castagno, senza alcuna modanatura. Anche il portale fu liberato dalle «ridipinture e incrostazioni di malta», mostrando il «suo disegno, semplice e robusto, con un bell'architrave di cipollino e l'arco in conci di tufo giallo e grigio alternato, su cui sono rimasti resti di ingenui affreschi decorativi».
Senza dubbio, però, l'intervento più visibile fu rappresentato dalla completa decorticazione dell'intonaco in facciata, che fece emergere un apparecchio murario a filari di conci squadrati di tufo grigio campano con facciavista «ornata, all'imposta del timpano, da una fascia a elementi in pietra triangolari e romboidali con un motivo decorativo», ossia una tarsia, databile al XII-XIII secolo, che la Asso mise in relazione a quella presente sul fianco destro della cattedrale di Casertavecchia.
Infine, fu deciso di continuare la spicconatura dell'intonaco all'interno della chiesa e di lasciarla «non intonacata nei tratti di muratura in pietra a vista e di coprire gli altri con un semplice intonachino dello stesso colore della pietra».
Terminati gli interventi, la Soprintendenza chiese il finanziamento del secondo lotto dei lavori, da inserirsi nell'anno finanziario 1969, trasmettendo, il 31 gennaio dello stesso anno, opportuna perizia, che prevedeva un importo di 6 milioni di lire, chiarendo che «durante il primo lotto di lavori di restauro nella chiesa in oggetto (...) sono stati ritrovati elementi che determinano la necessità, per il completamento del restauro, di eseguire lavori di demolizione e di trasformazione di alcuni ambienti di proprietà privata sovrastanti e adiacenti la chiesa stessa». Il soprintendente, a tal proposito, informava il ministro di aver chiesto al proprietario la cessione dei beni da abbattere e di aver ottenuto dall'ufficio tecnico erariale casertano una loro valutazione economica. Altresì, riscontrava che i privati proprietari confinanti avevano aderito solo in parte alla richiesta di cessione dei beni necessari a prolungare l'azione di restauro, chiedendo l'autorizzazione all'esproprio. La risposta del ministro fu negativa: non si era disposti a finanziare «anche la spesa dell'acquisto o dell'esproprio delle costruzioni adiacenti», alle quali si riteneva dovesse provvedere la Diocesi di Teano.
Ad ogni modo, nonostante quelle che evidentemente considerava palesi contraddizioni da parte della Soprintendenza campana, il ministro comunicò la disponibilità a dichiarare la pubblica utilità dell'esproprio a favore dell'autorità ecclesiastica, avvisando però che, qualora da parte della stessa «non si intendesse tuttavia procedere all'acquisto degli immobili in parola, la S.V. vorrà trasmettere una perizia di spesa limitata alle sole opere di restauro che potranno essere eseguite al monumentale edificio». A distanza di qualche mese, il 10 settembre 1969, il soprintendente Dillon inviò al Ministero una stringata nota, tramite la quale comunicava che il proseguimento dei lavori di restauro della chiesa sarebbe stato inserito nel programma di attività per l'anno 1970. Il secondo lotto dei lavori, però, non partì mai.
La diversità di vedute tra il Ministero e la Soprintendenza era divenuta inconciliabile, al punto da non consentire il completamento dei lavori e favorire lo stato di abbandono nel quale - principalmente a causa dei dissidi tra i due enti - essa da oltre quarant'anni deplorevolmente versa. A nulla sono peraltro valsi, se non a peggiorare la situazione, gli interventi di consolidamento della struttura condotti a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Realizzati facendo largo uso di iniezioni cementizie, infatti, hanno ulteriormente danneggiato le caratterizzazioni del palinsesto architettonico.

Francesco Miraglia
(da Il Sidicino - Anno XI 2014 - n. 6 Giugno)

(*) Un ampio resoconto degli interventi di restauro condotti sulla chiesa di S. Benedetto è in F. MIRAGLIA, La “liberazione” della chiesa di S. Benedetto a Teano, in Monumenti e documenti. Restauri e restauratori del secondo Novecento (Atti del Seminario Nazionale), a cura di G. FIENGO, L. GUERRIERO, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2011, pp. 439-450.
 
Foto 2 – Chiesa di S. Benedetto, interno, particolare della volta tardobarocca - lesionata in chiave - della navata centrale (1968)
 
Foto 3 – Chiesa di S. Benedetto, interno, scorcio della navata centrale (1968)
 
Foto 4 – Chiesa di S. Benedetto, interno, scorcio della navata centrale in direzione dell'ingresso (2010)
 
Foto 5 – Chiesa di S. Benedetto, interno, navata centrale, abside (2010)
 
Foto 6 – Chiesa di S. Benedetto, scorcio della fronte (2010). Le tarsie bicrome, poste sulle due finestre, furono liberate da Margherita Asso, che integrò il paramento con blocchi di tufo giallo, in corrispondenza del finestrone tompagnato