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Indice Gaetano Mastrostefano
 
 

I quadri di storia di Luigi Toro esposti

nel Municipio di Sessa Aurunca (I parte)
 
(L’ “Agostino Nifo alla corte di Carlo V” e il “Taddeo da Sessa al Concilio di Lione”: la controversia)
 
Nel n. 7, Anno VIII, di questo periodico fu pubblicato un saggio rievocativo su Luigi Toro, artista originario di Lauro di Sessa Aurunca, rielaborato dal volume monografico Luigi Toro (1835-1900) Pittore e patriota dell’800 (ARMANDO CARAMANICA EDITORE, Marina di Minturno (LT), 2012, pp. 188), da me curato in occasione della ricorrenza del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, in collaborazione con Maria Elena Maffei e Gianluca Puccio, che ha portato alla luce significativi elementi storico-biografici e artistici inediti o finora trascurati che hanno contribuito ad allargare i confini del suo percorso umano e artistico rivelatosi molto più articolato di quello tramandato legato alla ‘sfortuna critica’ riservata a quei settori della pittura dell’Ottocento come espressione dell’Accademia e della ‘pittura di storia’ avvertita come volontà di perpetuare i sentimenti dell’epopea risorgimentale in una forma retorica e oramai fuori tempo, come osservava nella sua ‘presentazione’ al testo Luisa Martorelli della Soprintendenza per il Polo Museale Napoletano.
Oggetto negli ultimi decenni di una costante opera di rivalutazione grazie ai numerosi contributi della ‘critica vivente’ italiana e delle mostre nel frattempo dedicate, la ‘pittura di storia’ ha riconquistato vitalità e dignità artistica nell’ambito della storia dell’arte italiana dell’Ottocento riverberatasi anche sull’opera di Luigi Toro emersa più compiutamente nella citata pubblicazione monografica, come testimonia l’avvenuto recupero, auspicato dalla stessa Martorelli, del maestoso dipinto La morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone, di ben quattro metri di altezza per sei di larghezza, dedicato al Maggiore garibaldino mantovano caduto negli scontri risorgimentali sul Volturno che, come evidenziato nel volume monografico, giaceva in precarie condizioni di conservazione, avvolto su rullo, nei depositi di Castel Sant’Elmo della Soprintendenza dei BB.AA. di Napoli.
Dopo il restauro effettuato dal Gruppo Intesa Sanpaolo (attuale proprietario dopo la fusione col Banco di Napoli), cui va il plauso per l’iniziativa, il dipinto è stato collocato nella Reggia di Caserta (Rif. Il Mattino di Napoli del 30 settembre 2017) dov’era stato esposto l’ultima volta nel 1961 in occasione delle manifestazioni per il Centenario dell’Unità d’Italia completando, così, la ‘triade’ delle opere di carattere storico, oggi tutte fruibili, che Luigi Toro realizzò per affermare la sua ‘opinione artistica’ nel campo della ‘pittura di storia’, in uno all’ Agostino Nifo alla corte di Carlo V (dipinto in due versioni) e al Taddeo da Sessa al Concilio di Lione, esposte nel ‘Salone dei Quadri’ del Municipio di Sessa Aurunca e a Montecitorio a Roma (la prima versione del Nifo), di cui sono protagonisti due illustri personaggi del passato di origini ‘sessane’ che l’artista aurunco coinvolge nelle sue allegorie artistico-patriottiche.
La messa a punto di questi dipinti fu, comunque, estremamente laboriosa e onerosa per l’intrinseca complessità scenica e per le gigantesche dimensioni - dai circa due metri e ottanta per tre e mezzo del Nifo ai quattro metri per sei del Bronzetti e del Taddeo da Sessa - oltre che complicata dagl’intriganti e, per certi versi, anche drammatici risvolti legati alla lunga controversia insorta con l’Amministrazione Comunale sessana, committente delle opere dedicate ai ‘sessani’ Nifo e Taddeo, compiutamente rievocata e documentata nella citata monografia che, su invito della redazione de il Sidicino, ho riproposto, se pur nei tratti essenziali per i limiti dello spazio disponibile, unitamente alle immagini dei dipinti esposti nel Municipio di Sessa Aurunca corredate da schematiche descrizioni critico-storiche.
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Verso la fine del 1869 Luigi Toro si era spostato a Roma dopo essersi dedicato per oltre un decennio più che all’arte, agli impegni patriottici e alla lotta contro il brigantaggio.
Per il trentacinquenne artista aurunco iniziava un periodo d’intensa attività nella neo-Capitale d’Italia ricca di fermenti e aspettative.
Una volta allestito lo studio in Via Margutta a “quel famoso numero trentatré che segna da molti anni la porta di un giocondo asilo d’artisti […] quasi tutti notissimi nell’arte”, come evidenziava Gabriele D’Annunzio, iniziò a introdursi fattivamente nell’ambiente artistico come socio dell’Associazione Artistica Internazionale, com’era stato ribattezzato dal 1870 il famoso Circolo degli Artisti di Via Margutta, e a partecipare a numerose mostre artistiche nazionali ed internazionali. Non trascurò di frequentare anche gli ambienti culturali della neo-Capitale italiana intrattenendo rapporti con illustri personaggi dell’epoca e con la Casa Reale che lo aveva insignito della Sovrana Onorificenza di Cavaliere della Corona d’Italia (era amico personale del Principe Umberto e ospite nel famoso ‘salotto’ della Regina Margherita).
Nel frattempo, stava lavorando all’allestimento delle due opere pittoriche che gli erano state commissionate l’11 aprile del 1870 dall’Amministrazione Comunale di Sessa Aurunca ispirate a due famosi personaggi storici legati alla città, il filosofo rinascimentale Agostino Nifo e il fedele Segretario di Federico II Taddeo da Sessa, che riteneva fondamentali per affermarsi nel campo della ‘pittura di storia’, un ruolo molto ambito dai pittori dell’epoca.
LUIGI TORO - Agostino Nifo alla corte di Carlo V (2° Versione, 1876), olio su tela, 281 x 360 cm (Municipio di Sessa Aurunca (CE))
 
La realizzazione dell’Agostino Nifo alla corte di Carlo V e la controversia col Comune
Verso la fine del 1875 il ‘Bollettino’ del periodico ROMA ARTISTICA annunciava che: “Agostino Nifo essendo ricevuto da Carlo V, non esitò a porsi a sedere con la testa coperta mentre tutti i cortigiani stavano in piedi e scoperti; e all’Imperatore che gli chiese come osasse tanto, rispose che la maestà sua poteva fare dei grandi ma non già dei filosofi […]. Questo è l’argomento di una grande tela di metri 3 ½ che il signor Toro eseguisce per commissione del Municipio di Sessa Aurunca”.
Una volta completato, il dipinto fu esposto il 16 gennaio 1876 in anteprima nel suo ‘atelier’ di Via Margutta suscitando favorevoli consensi di pubblico e critica, come evidenziava il quotidiano LA CAPITALE del 18 gennaio: “L’esposizione nello studio del sig. Luigi Toro in Via Margutta, num. 33, di un grande quadro esprimente l’insigne filosofo Costantino (sic!) Nifo alla corte di Carlo V, è stato un vero successo per l’egregio pittore. Fra le migliaia di stranieri e italiani che lo hanno visitato si notano i ministri Bonghi, Spaventa, molti senatori e deputati, e parecchi signori e dame appartenenti alla diplomazia. L’unanime giudizio in proposito da noi raccolto è che il quadro del sig. Toro sia opera degna di ammirazione e collochi l’artista nel rango dei più geniali che onorano l’Italia”.
I sei anni trascorsi dalla commissione ricevuta nel 1870 dall’Amministrazione Comunale di Sessa Aurunca costituivano un lasso di tempo alquanto lungo per la realizzazione di questo suo primo dipinto storico. Di certo dipese dalla complessità del lavoro artistico con la lunga fase preparatoria (indagini storiche, studi dei costumi, dell’ambientazione, delle pose e dei volti dei personaggi) e l’impegnativa fase esecutiva, ma anche dalle contestazioni mosse da alcuni Consiglieri Comunali della città aurunca che, nella seduta consiliare del 22 maggio 1872, sostenendo l’incompatibilità di una spesa di tal genere con lo stato delle finanze comunali, provocarono la sospensione dei pagamenti appena dopo lo svincolo della prima rata di anticipo di 2.000 lire. Il pittore aurunco che era ancora Consigliere comunale, contrastò tenacemente tale decisione in una lettera ai Consiglieri resa nota nel Consiglio Comunale del 6 dicembre di quell’anno, nella quale, esprimendo le sue perplessità sulla decisione assunta, fece presente che aveva già effettuato le spese per la dipintura del primo quadro dedicato ad Agostino Nifo, ma “non volendo per questo essere di peso al suo paese” si rendeva disponibile “a transigere sul valore dei quadri e a ricevere la retribuzione del lavoro a rate”. In una successiva lettera del 18 maggio 1873, comunicò l’intenzione di rinunziare anche “a un quinto del valore dei quadri da far valutare da apposita commissione”, proposta accettata nella seduta comunale del successivo 16 agosto.
La controversia sembrava chiusa, ma dopo appena due anni, nel Consiglio comunale del 3 ottobre del 1875, nell’autorizzare il pagamento della rata dovuta per quell’anno, il Consigliere Domenico Ferrara chiese “che questa spesa sia risparmiata!”. Dopo un acceso dibattito, il Presidente, nonché Sindaco, Federico Tumulo, ribadì l’impegno a far eseguire i due quadri.

Nel frattempo, dopo l’ottima accoglienza ricevuta nella esposizione privata nel suo studio di Via Margutta, il Nifo venne presentato alla mostra della Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti allestita a Roma all’inizio di febbraio del 1876, dove raccolse altrettanti favorevoli consensi da parte dei visitatori e della stampa: “L'apertura della sala dell'Esposizione nonostante la grandine e la neve che veniva giù in quel momento, ha avuto luogo con una certa solennità [...]. Alle ore 3 1\2 pomeridiane sono giunti i RR. Principi [...]. Tra le migliori opere: ‘Il filosofo Nifo alla corte di Carlo V’ di Toro […]” (da L’OPINIONE del 7 febbraio). Nonostante gli apprezzamenti, il dipinto ebbe, però, solo una ‘menzione di lode’ da parte del Giurì ritenuta da molti degli addetti ai lavori insufficiente. Lo evidenziarono vari commenti giornalistici, tra cui, la Chiacchierata Artistica con la lunga “sfogatina biliosa” di Raffaele de Cesare - autorevole storico, saggista e critico dell’epoca - apparsa sulla testata romana LA LIBERTÀ del 13 marzo, e quello del quotidiano LA CAPITALE del 15 marzo 1876: “davvero scandaloso il verdetto emesso dal giurì […]. Tra gli esclusi ai premi c'è il pittore Luigi Toro, l'autore del lodatissimo quadro rappresentante Agostino Nifo alla Corte di Carlo V, giudicato dagl'intelligenti uno dei migliori quadri esposti. Converrebbe almeno sapere per quale animosità il giurì ha potuto mettersi in così aperta contraddizione con il giudizio del pubblico”.
La mancata premiazione del dipinto fu probabilmente determinata dal soggetto scelto che non aveva convinto la giuria che non conosceva il filosofo sessano, né l’aneddoto messo in scena da Toro con un preciso significato allegorico: Agostino Nifo, restando seduto col cappello in testa al cospetto dell’Imperatore, pretende pari rispetto e considerazione non solo come magno filosofo del suo tempo, ma soprattutto come italiano orgoglioso e libero da vincoli di obbedienza. Un gesto, quindi, di fierezza e non di supponenza, come spesso malevolmente interpretato, congruente coi contenuti concettuali di un ‘dipinto di storia’ che, in questo caso, il pittore costruisce magistralmente sfruttando un aneddoto alquanto singolare e per certi versi curioso sul suo illustre concittadino, sia per omaggiarlo assecondando le intenzioni dell’Amministrazione, sia per “consolidare la mia opinione artistica [...] e mettere l’Artista in quel ramo che gli spetta”, come affermò nella sua inedita lettera scritta il 7 settembre del 1876 ai Consiglieri Comunali di Sessa Aurunca nel difendere la commissione assegnatagli.
Ad ogni buon conto, se il dipinto riscosse un indiscutibile successo che lo confortò per le scelte perseguite, i risvolti economici non furono altrettanto soddisfacenti. Infatti, aveva incassato dall’Amministrazione comunale sessana solo tre rate di acconto di 2.000 lire ognuna che di certo non ripagavano adeguatamente né l’impegno lavorativo, né le spese anticipate per la sua realizzazione. Di conseguenza, la sua già non florida situazione economica andò deteriorandosi anche per altre concause, tra cui, l’aver trascurato la produzione artistica più commerciale e l’amministrazione delle sue proprietà agrarie di Lauro, ma anche per la sua generosità “non limitandosi a donare ai poveri il superfluo”, come si espresse il Consiglio Comunale nella seduta commemorativa al momento della sua scomparsa avvenuta il 18 aprile 1900.
Costretto dalle pressanti esigenze finanziarie, il pittore pensò bene di trarre profitto dall’amicizia coi Reali Umberto e Margherita che, tra l’altro, avevano ammirato la sua opera il giorno dell’inaugurazione della mostra romana della Società degli Amatori e Cultori. Ben conscio dell’interesse per l’arte della futura Regina d’Italia che, anche per fini propagandistici, sosteneva gli artisti acquistando le opere maggiormente meritevoli esposte alle principali manifestazioni artistiche a cui presenziava, avanzò una proposta di vendita del quadro alla Casa Reale. Per concludere la cessione era, però, necessario l’assenso finanziario del Ministro della Real Casa Comm. Giovanni Visone, che lo preoccupava non poco. Pensò, allora, di far ‘sostenere’ la sua richiesta dall’amico senatore napoletano Giuseppe Lauria che indirizzò al Visone un’accorata lettera nella quale, nell’evidenziare di essere rimasto “incantato alla vista del bellissimo quadro del Toro”, segnalò le “tristi circostanze economiche” in cui versava per aver impegnato “tutta la sua poca moneta nella non lieve spesa di quel suo quadro, ed ora sta in bolletta” e, pertanto, esprimeva la “speranza di poterlo vedere acquistato da Casa Reale e che ove ciò gli avvenisse, egli sarebbe contento di ricevere il prezzo sminuito a qualunque scadenza”. La ‘supplica’ fu accolta e Toro si accordò a vendere il dipinto alla Casa Reale a un prezzo ribassato a 9.000 lire per poter far fronte alle sue più impellenti necessità finanziarie. Nel contempo, da esperto combattente abituato a valutare i rischi, aveva messo a punto un piano per poter ugualmente onorare l’impegno con l’Amministrazione Comunale sessana: occorreva temporeggiare tenendo momentaneamente celata l’avvenuta vendita del dipinto ai Reali, in modo da poterne approntare uno identico da consegnare al Comune aurunco. Il pittore era, infatti, certo che, dopo le prime rimostranze, l’Amministrazione avrebbe comunque accettato il duplicato non potendo pensare di intentare un’azione nei confronti dei Reali per annullare la vendita, né tanto meno di arrischiarsi in una lunga e costosa controversia legale nei suoi confronti, peraltro, dai dubbi esiti. E poi contava sull’appoggio di quei Consiglieri che l’avevano sempre sostenuto. Così, il 21 marzo consegnò al Ministro della Real Casa una richiesta per riportare il dipinto nel suo studio per “poter lavorare ancora alcune cose non abbastanza finite”: era questo il modo per comprovare che la tela non era stata venduta, essendo in suo possesso, per mostrarla ai Consiglieri comunali che l’Amministrazione aveva deciso di inviare a Roma per verificare la veridicità delle notizie che circolavano sull’avvenuta vendita del quadro. Dopo di che, si dedicò “con infaticabile ardore” a dipingere la replica, come riportava il Bollettino del Movimento Artistico del periodico ROMA ARTISTICA che sottolineava, inoltre, come “guardando entrambi questi quadri non si saprà in breve discernerne quale dei due sia la copia e quale la riproduzione. Ora dello stesso soggetto il Toro ha eseguito una replica di proporzioni minori” la cui esistenza, finora non nota, conferma come il pittore ritenesse pienamente legittimo eseguirne quante repliche voleva, rivendicando il ‘diritto d’autore’ sul “suo” soggetto frutto della “sua” genialità e non di una commissione.

Nel frattempo, però, la notizia della vendita del dipinto si era diffusa a Sessa provocando la dura reazione dei Consiglieri da sempre contrari al mantenimento della commissione, i quali, nel consesso civico del 10 giugno 1876, lo accusarono di essere venuto meno agli impegni assunti giocando, per il proprio lucro, contemporaneamente ‘su due tavoli’. A sua difesa, i Consiglieri che erano stati a Roma assicurarono che il dipinto non era stato affatto venduto, avendolo visto nello studio del pittore; riferirono, inoltre, che Toro, pur lusingato dalla richiesta di acquisto avanzata dai Reali, l’aveva declinata poiché l’opera già dipinta era stata commissionata dall’Amministrazione Comunale sessana e, quindi, avrebbe potuto vendere soltanto il duplicato che stava realizzando. Questa versione ‘addomesticata’ dei fatti non convinse, però, la maggioranza del Consiglio Comunale che decise di acconsentire che il “dipinto originale” restasse ai Reali e intimò a Toro di vendere “anche l’altra copia che attualmente sta riproducendo nell’interesse del Municipio stesso e nel contempo si astenga dall’eseguire la dipintura del secondo quadro commessogli, attese le anguste condizioni finanziarie in cui versa il Comune”. Questa decisione metteva seriamente in pericolo il suo ‘progetto artistico’. Punto nell’orgoglio e convinto del valore legale dell’accordo concluso con l’Amministrazione Comunale, il pittore decise di affrontare la situazione con coraggio e risolutezza. In breve tempo portò a temine il duplicato e, con una certa dose di sfrontatezza, lo consegnò al Comune sessano nel corso dell’estate di quell’anno con l’evidente assenso delle stesse autorità locali visto che la tela fu collocata nella Sala Consiliare dov’è tuttora. Poi, rivendicando il rispetto degli impegni, sottopose all’Amministrazione un’ulteriore proposta transattiva che prevedeva il ribasso del prezzo dell’opera a “Lire 30.000 da pagarglisi a rate annuali di lire 4.000 ognuna dichiarandosi anche pronto a diminuire tale prezzo ove gli si aumentasse la rata annuale in maggiori proporzioni”. La proposta fu portata all’attenzione del Consiglio Comunale nella seduta del 2 settembre dove, in un clima teso, vi fu una dura requisitoria del Consigliere Giustino Di Meo, portavoce della fazione da sempre contraria alla commissione. Di Meo, premettendo che “non intende ledere la stima dell’artefice compositore del quadro, né attaccare il suo arteficio”, rimarcò “la poca riconoscenza e gratitudine che l’artefice suddetto ha del Municipio per avergli dato mezzo onde sviluppare il suo ingegno e attuare il suo concetto, senza del quale sarebbe rimasto inattuato e dello abuso che ha fatto il medesimo della legge”. E dopo aver ripercorso le varie fasi della contrastata vicenda rinfacciò al pittore che “avendo venduto il quadro senza il consenso del Municipio ne vuole trarre doppio profitto l’uno dalla famiglia Reale e l’altro dal Municipio suddetto [...]; ed è per tali ragioni che si rimanda allo scioglimento del contratto ed al risarcimento dei danni ed interessi [...] Costringere il Comune a tale esigente spesa è lo stesso che metterlo sotto esproprio e vessare i cittadini con altri balzelli o addizionali che sono stati caricati fino alle ossa”, perciò sarebbe ingiusto tartassarli ulteriormente “per un quadro che è un lusso e non un bisogno”. Dopo questo duro intervento, si accese un vivacissimo dibattito durante il quale i Consiglieri espressero varie posizioni, da quelle più ostili a quelle più caute che, alla fine, prevalsero. Si decise, infatti, di invitare il pittore ad “offrire al Comune il maggior possibile risparmio sul prezzo del quadro, interessandolo a sospendere la esecuzione del secondo quadro (quello su Taddeo n.d.t.), ove ciò fosse possibile”, frase che faceva intravedere dei margini per ulteriori accomodamenti. In risposta, l’artista inviò al Consiglio la già citata inedita lettera del 7 settembre, interamente riportata nella monografia, in quanto, fondamentale per comprendere la sua ferma volontà di perseguire nell’intento di affermarsi come ‘pittore di storia’, nella quale propose una transazione con maggiori dilazioni sul pagamento e l’esecuzione gratuita di “un terzo quadro esprimente un soggetto storico non comunale ma italiano, della dimensione simile al primo” annunciando, così, di aver già concepito l’opera pittorica celebrativa della morte di Pilade Bronzetti a Castel Morrone, terminata solo nel 1885, che lo fiaccherà ulteriormente in termini finanziari rimanendo invenduta.
La lettera suscitò un acceso dibattito in seno al Consiglio Comunale dell’11 settembre con la messa ai voti delle varie mozioni contrarie o favorevoli presentate da vari Consiglieri e l’offerta transattiva del pittore che, pur di farsi confermare la commissione, ne dilazionò il pagamento “dopo otto anni da oggi” prevalendo con sei voti favorevoli (due furono i voti contrari, tre gli astenuti e tre quelli in appoggio alla mozione per l’acquisto del solo primo dipinto).

(continua)

LUIGI TORO - Agostino Nifo alla corte di Carlo V (2° Versione, 1876) -
particolare
 

L’ “Agostino Nifo alla corte di Carlo V”

(Scheda di lettura del dipinto)

Celebrato filosofo aristotelico rinascimentale, Agostino Nifo (1469-1538) studiò e iniziò ad insegnare, poco più che ventenne, ‘Filosofia naturale’ nello Studio universitario di Padova continuando, poi, la sua carriera accademica in quelli di Pisa, Roma, Napoli e Salerno.
«Profesor sapientìssimo y cortesano festivo, erudito tumultuoso y enamorado impenitente […]. Tuvo mucho ascendiente entre los grandes señores y damas, ante quienes se imponìa con un talento muy meridional para chistes y donaires. Era la encarnacìòn viva del “uomo dotto e faceto”, del “uomo piacevole”. Pasaba de la metafisica al galanteo, de la leccion magistral a la mascarada». Non c’è bisogno di tradurre questi fraseggi di Francisco Socas, docente dell’Università di Siviglia della traduzione in ‘castigliano’ (1990) del De Pulchro et De Amore, una delle oltre quaranta opere prevalentemente filosofiche che Nifo pubblicò tra il 1497 e il 1732 in oltre centosessanta edizioni stampate nelle più prestigiose sedi tipografiche italiane ed europee, che lo segnalano tra i più prolifici autori del suo tempo. Il suo straordinario eloquio e acume filosofico-politico gli procurarono grande notorietà e rispetto da parte degli accademici, degli allievi e dei potenti del suo tempo, tra cui, Papa Leone X - Giovanni de’ Medici - che lo nominò Conte Palatino concedendogli il privilegio di aggiungere al proprio cognome quello della casata de’ Medici che Nifo ostentò con orgoglio insieme all’appellativo Suessanus o ‘il Sessa’ che utilizzava nei suoi scritti per testimoniare l’attaccamento alla sua terra d’origine. Di Carlo V fu ascoltato Consigliere e gli dedicò, nel 1523, il De Regnandi Peritia, un trattato sul ‘buon governo’ scritto a specchio de Il Principe di Machiavelli, peraltro, pubblicato nel 1531, che gli procurò tanta fama in vita e altrettanto discredito postumo.
Secondo un aneddoto tramandato da Niceron poi ripreso da Tommaso de Masi (Memorie Istoriche degli Aurunci, 1761), l’Imperatore Carlo V - che passò per Sessa il 24 marzo del 1536 come ricordano le Cronache del Fuscolillo e i cippi marmorei murati sul Corso Lucilio - incontrò Agostino Nifo che, all’epoca, era Sindaco dei Nobili, il quale, senza rispetto per l’augusto interlocutore, gli si sarebbe seduto di fronte rimanendo a capo coperto fra lo sdegno e la sorpresa di tutti i presenti. Luigi Toro fa suo questo aneddoto per alimentare la sua aspirazione ad affermarsi nel campo della ‘pittura di storia’, un genere depositario delle tradizioni pittoriche italiche e degli ideali di rivendicazione di una coscienza nazionale presente in Nifo che orgogliosamente non ossequia il dominatore di turno.
L’incontro è ambientato all’interno di un salone colonnato dove, tagliando lo spazio in diagonale, l’altera figura dell’Imperatore si oppone a quella del filosofo, seduto al centro di un gruppo di dignitari disposti a semicerchio. Ne risulta una manifesta ricerca di teatralità, accentuata da un’impronta pittorica minuziosa, precisa e accurata sia nell'approfondita analisi dei passaggi di luce, sia nei livelli di finitezza dei particolari e, soprattutto, della laboriosa caratterizzazione dei personaggi in abiti e pose dell’epoca rinascimentale studiato ‘dal vero’ a Lauro di Sessa coinvolgendo parenti e amici che posarono come modelli nei ricchi costumi cinquecenteschi appositamente presi a noleggio dal Teatro S. Carlo di Napoli.
Nella ‘scheda’ presente nella monografia pubblicata nel 2012, è evidenziato come il livello di precisione e minuziosità risulta maggiore nel primo dipinto ultimato in ordine di tempo - quello, per intenderci, cosiddetto ‘originale’ venduto alla Casa Reale e poi esposto nel Museo di Capodimonte prima di essere restaurato e dato in sottoconsegna al Palazzo di Montecitorio a Roma - rispetto al secondo, riportato in figura, approntato in tempi alquanto ristretti per il Comune di Sessa Aurunca che, comunque, lo accettò al termine della controversia intercorsa. Risultano alcune lievi differenze tra le due versioni riguardanti, in particolare il volto di Nifo più pacioso e irriverente nella seconda versione rispetto a quello alquanto contratto della prima versione maggiormente in sintonia con la tensione del momento, come può evincersi dal raffronto delle foto delle due tele riportate nella citata monografia.

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(N.B. Su il Sidicino, Anno n. XI, n. 5, maggio 2014, è stato pubblicato il saggio “Aut Niphus, aut Sessa” - Una giornata dedicata a Nifo, con notizie e ragguagli storici sul filosofo sessano)

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(N.B. - Le frasi e le notizie virgolettate nel saggio sono tratte dai verbali delle sedute dei Consigli Comunali, da cronache giornalistiche o da altre fonti dettagliatamente documentate nella monografia citata).

Gaetano Mastrostefano
(da Il Sidicino - Anno XIX 2022 - n. 4 Aprile)