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Sant'Antonio Abate: un affresco da salvare

 

Facendo la storia delle chiese di Teano, all'incirca nel 1964, il Canonico De Monaco stendeva un dettagliato elenco degli affreschi che erano allora visibili nell'abside della chiesa di Sant'Antonio Abate. All'epoca, l'abside si presentava separata dalla restante parte della chiesa da una parete alzata subito dietro l'Altare Maggiore. Sarà stato, probabilmente, il microclima creatosi in questa “bolla” ambientale ad aver consentito per centinaia di anni una buona conservazione delle pitture. Fatto sta che il Canonico nel 1964 poteva scrivere: “sulla parete del vano dietro l'altare maggiore si vedono affreschi trecenteschi……., alcuni sono cancellati, altri ben conservati”. Nel catalogo che seguiva veniva precisato che sette erano i quadri ben conservati e due quelli cancellati. L'abbondanza di particolari e la completezza delle informazioni che il Canonico forniva sui soggetti dei sette riquadri fa intendere che egli abbia potuto godere di una lettura agevole delle pitture e delle didascalie che scorrevano nelle fasce bianche tra una fila e l'altra.
A quarant'anni da quel 1964, forse per un'accelerazione del processo di degrado della parete, forse per il trauma climatico causato dal recente abbattimento del muro che aveva tenuto isolata l'abside, dobbiamo purtroppo dire, parafrasando il canonico, che molti quadri sono cancellati, altri male conservati.
Il racconto murale della vita di Sant'Antuono, come in tutte le absidi affrescate, si sviluppava dall'alto verso il basso e da destra verso sinistra. La prima fila, la più alta, costituita da quattro quadri, è del tutto scomparsa. Nessun indizio pittorico ci consente di ricostruire la scansione del racconto in questi quattro quadri.
Certamente vi era narrata la giovinezza di Antonio, sulla scorta della biografia scritta dal suo discepolo Atanasio. Si sa che Antonio è nato a Coma, città dell'Egitto sulla riva sinistra del Nilo, nel 250. La sua giovinezza segna un progressivo allontanamento da un mondo, quello romano, che volgeva al declino in un parossistico crescendo di lusso e crudeltà, di barbarie e di feste, in una contaminazione magmatica di lingue, di culture, di riti, di filosofie e religioni che annullavano ogni certezza e prospettiva del futuro.
Per Antonio, come per altri giovani del tempo, l'ancoraggio ad una forte vita spirituale avviene con l'adesione all'invito rivolto da Gesù ai suoi seguaci a rifugiarsi nel “deserto”, luogo reale e figurato nel quale ritrovare la serenità e la perfezione. I giovani del tempo, specialmente nelle regioni dell'Africa e del Medio Oriente, sentono forte il richiamo della vita solitaria, da cui la parola monaco, e lasciano le città, svuotate di qualsiasi funzione sociale ed amministrativa, per andare a vivere nelle grotte o in antiche tombe scavate nella roccia.
I biografi del tempo riconoscono nell'eremita Paolo di Tebe il precursore di questo processo di costruzione di un modello egiziano di monachesimo eremitico. Il frescante di Teano conosce questo dato storico e ne dà testimonianza nella scena dipinta nel secondo riquadro della seconda fila: Antonio sta in piedi davanti al corpo di S. Paolo morto, e con la mano destra sembra dare indicazioni ai due mansueti leoni che ne stanno scavando la sepoltura. Sullo sfondo, un realistico palmizio e un dolce scenario da oasi del deserto.
Nel terzo e quarto quadro della seconda fila la narrazione si sofferma su un aspetto centrale della vita di Sant'Antonio, forse quello che ha avuto più eco nella tradizione popolare e nella pittura colta, da Bosch a Domenico Morelli: le tentazioni del demonio. Il diavolo tormenta la solitudine di Antonio, apparendogli in forme sempre diverse, angeliche, umane e bestiali.
Antonio combatte con il diavolo, con l'astuzia oltre che con il digiuno e la penitenza. Alla fine dà scacco al tentatore e, secondo una tradizione popolare, il diavolo sconfitto viene trasformato in un maialino condannato a seguire per sempre il Santo.
Il terzo riquadro è probabilmente quello in cui più si avverte l'influenza della maniera giottesca. Due linee oblique di montagne partono dagli angoli superiori e si incrociano a metà della scena; nel centro geometrico della rappresentazione sono collocati i personaggi secondo ritmi di ordinata suddivisione spaziale. In questo riquadro il diavolo si presenta ad Antonio nelle sembianze di una bellissima giovane: tra il Santo e la donna si alza un'alta lingua di fuoco che sembrerebbe alimentata dal Santo stesso. Il fuoco entra di forza nella iconografia di Antonio, ne caratterizza il radicamento nella cultura popolare con tutta la sua ambivalenza di significati apparentemente contrastanti: forza vitale e distruttiva, maleficio e beneficio, distruzione del vecchio e inizio del nuovo.
Nella simbologia del fuoco i valori sacri e purificali si innestano su quelli rituali e magici derivati, a detta di alcuni, dall'ambito celtico-irlandese in cui il culto di Sant'Antonio ebbe larga diffusione.
Sull'intreccio tra il Santo ed il fuoco, si stratificano nel tempo una serie di credenze che interferiscono con i più diversi ambiti della vita degli uomini: una forma di Herpes Zoster che flagella gli uomini del medioevo, causata dalla segale cornuta, viene definita “fuoco di Sant'Antonio”. Il male può essere curato solo con il grasso ricavato dai maiali che i monaci stessi allevano. Ed ecco il maiale, un attimo prima connotato negativamente come incarnazione del maligno, riacquistare, in questo gioco di ambivalenze, il potere sacrale di ridare la salute agli ammalati.
Ed il fuoco, acceso in grandi cataste il 17 di gennaio, è collegato al ciclo delle stagioni. La sua fiamma consuma l'anno appena passato ed illumina le tenebre della lunga notte invernale che volge alla fine. Le ceneri che il fuoco lascia a terra vengono raccolte dai contadini ed utilizzate per propiziare i raccolti del nuovo anno. La cultura contadina ha coniato un proverbio che sintetizza questa caratterizzazione di Antonio come generatore del nuovo, fattore di rinascita, a Sant'Antuono ogni innesto è buono.
Nel quarto riquadro ritorna il tema delle tentazioni, questa volte nei panni di un giovane nudo, dalla pelle scura. Il Santo, disteso in terra, tiene lontano il giovane ed un diavolo alato con la mano alzata. Anche questa raffigurazione del giovane risponde ad una convinzione largamente diffusa nel medioevo secondo la quale il diavolo gradiva mostrarsi nella pelle di un giovane “etiope”.
Qualcosa di anomalo, dal punto di vista della costruzione del racconto, avviene nella fila più bassa. I quadri attualmente leggibili sono tre: nel primo il Santo è inginocchiato davanti al Tempio a lui consacrato mentre un angelo gli porge un nastro con una scritta. La struttura della chiesa, la sua collocazione nel riquadro su una linea diagonale, le tre aperture ad arco sulla facciata, ricordano molto da vicino le chiese dipinte da Giotto nel ciclo di Assisi, e l'assonanza diventa forte se si pensa alla chiesa inserita nel riquadro delle Clarisse che piangono San Francesco.
Un curioso particolare attrae l'attenzione dell'osservatore: lungo la base della parete laterale del tempio, alle spalle di Sant'Antonio, nel punto centrale della fila più bassa, proprio all'altezza del punto dove viene a posizionarsi la persona che osservi l'affresco, è evidente la traccia di una scritta che l'attraversa da un capo all'altro. L'interpretazione della scrittura appare impossibile, ma è evidente l'intenzione dell'Autore di comunicare un messaggio allo spettatore. Forse il suo nome e la datazione dell'opera.
Nel terzo riquadro, un gruppo di cinque monaci, vestiti con gli abiti prescritti dallo Statuto dell'Ordine Antoniano piange la morte del Santo. La scena del compianto è collocata in una piccola cella, sistemata prospetticamente nello spazio, secondo i canoni rappresentativi definiti dalla scuola giottesca in Umbria ed a Padova e calati a Napoli.
Del tutto anomalo rispetto ai ritmi costruttivi dell'affresco appare il quadro con la figura del Santo compreso tra il primo ed il terzo. Ha dimensioni che non trovano riscontro in tutti gli altri riquadri, sia per la larghezza che per l'altezza. Spezza la narrazione, erodendo spazio ai due riquadri di destra e di sinistra. Nella cornice del quadro è intessuto con estrema cura un mosaico pittorico di pregevole fattura, del tutto assente negli altri.
Ma è lo stesso Santo ad essere rappresentato con una monumentalità, una ieratica potenza, che è l'esatto contrario del tono dimesso, umile, quasi favolistico, che il frescante ha voluto dare al suo racconto rivolto principalmente ad un pubblico semplice che viveva nel vicino borgo.
Sono assenti alcuni degli elementi topici che accompagnano l'iconografia del Santo: il fuoco nella mano, il maialino, il Tau egiziano nel mantello. Sono invece raffigurati in forte evidenza il bastone del pellegrino ed un libro, elementi iconografici che tendono a mettere in luce un altro aspetto di Antonio – ed ecco che ritorna il complesso gioco di divaricazione di significati, di stratificazioni complesse che accompagna tutta la figura del santo –. Pare quasi che il Pittore del Sant'Antonio, senz'altro diverso dal frescante degli altri quadri, sia stato attratto non dal Santo che guarisce dallo scorbuto e dalla peste, protettore degli animali, rigeneratore della natura con la forza purificatrice del fuoco. L'Antonio che ha in mente il Pittore è il Santo che ha ereditato la scienza dei Padri della Chiesa, con i quali ha vissuto in una vicinanza temporale e geografica; colui che nel 311 dovette difendere i cristiani perseguitati in un aspro confronto con l'imperatore Massimiano; l'Antonio che nel 315 dovette correre ad Alessandria per combattere l'eresia ariana; ed, infine, il Monaco che veniva visto come un punto di riferimento da tutti i frati che aspiravano, in quegli anni, al rinnovamento degli ordini monastici.
Un'ultima curiosità coglie lo spettatore che va ad osservare da vicino l'immagine del Santo: davanti al lembo di sinistra del saio è visibile una piccola, splendida testa giovanile. Tutto quel che resta di una figura inginocchiata ai piedi di Antonio. Non si tratta, date le dimensioni, di un santo. Né può essere un angelo, perché gli angeli venivano posti in alto. Ci piace, allora, credere che possa essere un autoritratto dell'Autore o forse un ritratto del benefattore che ha commissionato l'opera.
Chiunque esso sia, sta lì a richiederci un maggior rispetto per quel piccolo capolavoro in cui ha abitato per tanti secoli e che ora va scomparendo.

Giuseppe Lacetera
(Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 2 - Febbraio)