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Pensiamoci un poco...

 

La tesi che mi appresto a sostenere non può non partire che da un assunto filosofico di oltre duemila anni, motto esplicativo e riassuntivo del pensiero di Protagora di Abdera (486 – 411 a. C.): “l’uomo è la misura di tutte le cose”. Un percorso di pensiero che nei fatti negava la eventuale esistenza di verità oggettive ed assolute che potessero essere conosciute da tutti, e da tutti allo stesso modo. Erano nate, con lui, la sofistica ed il relativismo.
Di verità assolute avrebbero potuto anche esisterne, ma comunque le diversità nascenti nel loro riconoscimento da parte dell’uomo avrebbero vanificato il loro essere assolute. Su queste idee i filosofi hanno sempre dibattuto molto, ad iniziare dal fatto di cosa si potesse intendere, secondo Protagora, per uomo: se il singolo individuo, per il quale la realtà oggettiva appariva diversa da come appariva ad un altro uomo, o se la parola vada interpretata in senso più lato, come “comunità”, “appartenenza ad una categoria” che spinge ogni uomo a vedere le cose secondo i principi della categoria a cui appartiene e che appaiono diverse ad altri che le osservassero secondo altri principi.
Le due argomentazioni non sono contraddittorie, perché anche le seconde, assieme a tante altre, contribuiscono a formare il metro di misurazione di ogni uomo.
Dato per acclarato questo principio, e senza negare, per chi volesse crederci, la esistenza di verità assolute, perché non è a questo che tendo, ne scaturisce la importanza di ogni singolo nell’elaborare punti di vista e conclusioni, idee e prospettive, pensieri ed atteggiamenti i quali, per la loro sola eventuale unicità, non potrebbero che essere di stimolo e di ampliamento di ogni conoscenza. Sicuramente non propongo una novità: in fondo ogni autore di saggi, di romanzi, di scritti scientifici o di fantasia, non fa altro che questo: proporre una sua personale visione ed un suo modo di sentire, non per donare certezza di giudizio, ma per affinare, nel lettore, le capacità di usare ed ampliare i parametri della sua “misura”.
Ma se tanti altri, e con imparagonabile maestria, tipo Montaigne, lo hanno fatto, che senso avrebbe che a farlo ci provassimo un poco tutti, pur nella nostra limitatezza di studi? Gli è che noi stiamo affrontando una materia mutevolissima nel tempo, nello spazio, nell’evoluzione umana, nella sua mentalità, mai uguale a sé stessa, pur se questo non costituisce aspetto negativo. Anzi è di stimolo per continuare ed accentuare la diffusione di esperienze cognitive e di giudizio approfondite direi quasi giorno per giorno. Anche le cose naturali, che possono apparire immutabili, non lo sono attraverso la lente della “misura” di ogni singolo uomo: è paradigmatica la espressione, circolata a mo’ di tormentone, “non esistono più le quattro stagioni”. Ma possiamo affermarlo con sicura certezza, nel momento in cui ogni individuo può avvertire il caldo o il freddo diversamente da un altro, o non ha memoria sufficiente per ricordare che qualche variazione atmosferica non ortodossa non si sia verificata infinite altre volte nella esistenza del nostro pianeta?
Un uomo di oggi è completamente diverso, forse anche fisicamente, dall’uomo di cinquant’anni fa, giusto per non andare lontano nel tempo; ha interessi, pensieri, prospettive diverse, si comporta diversamente di fronte alle stesse occasioni o difficoltà, e sicuramente anche queste sono cambiate nella sostanza come nell’apparenza. Che siano più grandi o meno, non importa: sono semplicemente diverse perché diverso è il contesto nel quale nascono e si manifestano, e diversamente vengono “misurate” dall’uomo che non è più quello di prima.
Ed il collegamento con Eraclito di Efeso (535 – 475 a.C.), filosofo precedente Protagora, sorge spontaneo quando, spiegando il suo aforisma “panta rei” (tutto scorre) afferma che “non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa della impetuosità e della velocità del mutamento, essa si disperde e si raccoglie, viene e va”.
Una profonda rivelazione, ma Eraclito dichiara mutante nel tempo e nella forma solo “una sostanza mortale”, cioè biologicamente vivente. Il concetto sarà abbondantemente superato ed ampliato, millenni dopo, da Benedetto Croce che, nel suo trattato “La storia come pensiero e come azione”, afferma: “… non è ammissibile la divisione che si suol fare tra storia dell’umanità e storia della natura, mancando qui ogni assegnabile criterio distintivo, e appartenendo l’una e l’altra in modo omogeneo all’unica spiritualità e all’unica storia. E se la cosiddetta natura è spiritualità anch’essa e storia, è necessario consentire (per paradossale che l’affermazione suoni) che essa non può non avere, nei modi suoi, coscienza del suo fare, cioè coscienza della sua storia. Come si sarebbe fatta, come di continuo si farebbe, senza sentire e pensare e desiderare e volere, senza travagli e soddisfazioni, gioia e dolore, senza aspirazioni, senza memorie? Certo un inintelligente orgoglio può indurre, innanzi a questa affermazione, al disdegno ed al sorriso sprezzante; ma è lo stesso orgoglio che, procedendo per la sua linea, nega (ancorché non lo confessi aperto) coscienza umana agli uomini primitivi, e via via a classi inferiori o a popoli stranieri, e così ancora ai propri vicini del medesimo gruppo sociale, ed è disposto a credere che sol esso, l’orgoglioso, la possegga quasi privilegio”.
Anche una “natura”, non biologicamente vivente, continuamente cangiante che si “sarebbe fatta” e “di continuo si farebbe”!
Infinite situazioni che continuamente, in maniera soggettiva ed oggettiva, cambiano attimo per attimo e che possono fondare la momentanea conoscenza delle cose solo sulla capacità dell’uomo, del singolo, di essere “misura” di esse, “di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono”.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XX 2023 - n. 10 Ottobre)