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Sono solo... canzonette

... non mettetemi alle strette ...
 

Agostino di Ippona, mente eccelsa della cristianità, instancabile studioso, sublime oratore e perfetto comunicatore, sapeva cogliere le emozioni più vive del suo uditorio e penetrarne l'animo nell'avvicinamento alla divinità. Maturava con l'età e particolarmente belli i suoi sermoni sulla “Città di Dio”, predicati già sessantenne.
In uno di essi si rifà ai canti, i canti dell'Africa nella fattispecie: un salmo cantato per le strade, le serenate, ma soprattutto il ritmico salmodiare dei lavoratori dei campi, e ne trarrà una splendida immagine:
“Così gli uomini che cantano in questo modo, durante la mietitura o la vendemmia o in qualsiasi occasione che li assorba totalmente, possono cominciare a mostrare la loro gioia in canti con parole; ma ben presto essi saranno pieni di una tale felicità, da non poterla più esprimere a parole: al punto che, lasciando da parte le sillabe, essi intoneranno un canto di giubilo senza parole”.
Il “canto”, massimo utilizzo del dono della parola, peculiarità dell'uomo, ha sempre accompagnato i momenti più significativi della sua vita e della sua presenza sulla terra, assumendo di volta in volta significati e finalità diverse. Nelle sue varie forme è stato emotivo, incoraggiante, catartico, triste e glorioso, ma sempre espressivo di infinite e sfaccettate emozioni, che nascono con esso o da esso sono accompagnate e vivificate. Parole e musica, legate ed accordate insieme, o superandosi l'una con l'altra, rappresentano infine la perfetta sublimazione di immutabili sentimenti.
Un'arte antica di fusione di suoni e di parole nella quale non solo le note , ma anche le parole possono essere “stonate”.
Sono le parole, le frasi, che danno pregnanza al canto: se non sono significative di concetti ed orecchiabili, modulate non meno che la musica, la loro “stonatura”, non solo in senso musicale, ma anche formale ed ideologico, tutto il brano avvizzisce, se addirittura non sconcerta.
Purtroppo è proprio quanto si sta verificando oggi, dove l'uso della parola in musica è diventato sempre più esplicito ed, ahimè, scurrile, oltre che degenerante, anche nelle tonalità, in una tradizione vocale che non è la nostra.
Cadenze sempre più gutturali di chiara provenienza medio-orientale pervadono i nostri testi musicali con gorgheggi che non appartengono alla nostra cultura, ed anche le melodie si adeguano; nulla di male, si potrebbe dire, anche se gli uni e le altre sono distanti mille miglia dalla piacevolezza dei ritmi africani o sudamericani.
E non mi si dica che è frutto dei tempi mutati, perché le canzoni sudamericane o quelle “africans” americane vengono cantate nel loro stile, ma soprattutto nella loro “lingua”: qui siamo di fronte alla peggiore “invasione” della nostra cultura, non nell'apprezzamento di una cultura diversa e magari pure superiore. E ne godiamo!
Molto di male va invece detto per la tendenza al turpiloquio esplicito e gratuito di cui recentemente si è fatto sfoggio, oltre ad altro di pari disgusto, al Festival Nazionale della Canzone Italiana (?) a Sanremo; la parola meno fastidiosa era forse “stronza” con la quale addirittura esordisce una canzone, mentre il “ciao ciao” fatto anche con “il culo” ci lascia particolarmente perplessi, ed il verbo “fottere” viene coniugato in tutte le sue accezioni.
Anche al di fuori di quelle presentate al Festival altre canzoni eccellono nelle allusioni più “fastidiose”, giusto per usare un termine benevolo; una, nel ritornello, recita: “ci siamo incontrati, fottuti, lasciati, e poi ci siamo rivisti, fottuti, baciati nei posti più tristi” ed un'altra ancora - sei un pezzo di “mè”- dove il “mè” è pronunciato con accento fonico acuto, ben lungi dal far pensare ad un pronome personale e più alla contrazione di una parola non proprio di buon gusto, specie all'interno di una canzone che dovrebbe evocare altre piacevolezze.
Ed ancora non mi si dica che “il linguaggio evolve”, perché nel nostro caso si cerca solamente di sopperire alla mancanza di “arte” facendo esplicito uso di termini che colpiscono e nulla di piacevole aggiungono: un conto è il parlare corrente ad altro il creare musica.
Vero è che anche Dante si abbandona ad un verseggiare di poco costume quando cita anch'egli il “culo” del quale un diavolo “fece trombetta” (modo abbastanza elegante rispetto all'azione) o quando parla di Taide:
«[...] quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l'unghie merdose,
e or s'accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse "Ho io grazie
grandi appo te?": "Anzi maravigliose!"»
Ma qui siamo nell'arte pura ed il sommo Poeta riesce a trasformare parolacce e termini rozzi in pura poesia. Ancor meglio aveva fatto anche stilisticamente descrivendo “il peccato” di Paolo e Francesca.
In conclusione non vi pare che siano comunque di altro livello i testi di Mogol, di Aznavour, di Vecchioni, di Guccini, di De Gregori, di Dalla, di Baglioni, per non dire di E.A.Mario o di Salvatore Di Giacomo; e le voci italiane di Claudio Villa, Mina, Domenico Modugno, Ranieri, Al Bano, e chi più ne ha ne metta?
Stiamo parlando di evoluzione, o non, piuttosto, di involuzione, che si allarga quotidianamente a tutti i settori della nostra millenaria cultura saccheggiata costantemente da tanti?
Giudicate un po' voi!

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XIX 2022 - n. 2 Febbraio)