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Perché proprio noi, e non altri?

 

Mi piace condividere con i miei pochi lettori qualche considerazione che non può non presentarsi alla mente di chi, per propria soddisfazione personale, ama porsi quesiti ai quali sa che non esiste risposta precisa, ma che comunque servono ad allargare orizzonti di pensieri.
Non me ne vorrete se iniziamo qui un percorso che mi piacerebbe fosse oggetto anche di vostra partecipazione. E, nell'auspicata speranza di non tediarvi, gradirei continuare in altre puntate.
Ognuno di noi appartiene alla Storia, è figlio della Storia: nella sua meravigliosa unicità, perché ogni essere potesse venire al mondo, si sono verificate infinite coincidenze, estese alla partecipazione di un numero impensabile di uomini, di avvenimenti lieti o spesso tragici, di mutamenti naturali, di catastrofi o di positive rigenerazioni, di tutte quelle cose, cioè, che definiamo Storia. Non della sola Umanità, si badi bene, ma di tutto l’Universo. E se solo una di queste cose fosse stata diversa da quelle che in realtà è stata, non saremmo qui, oggi, io a proporvi queste considerazioni e ognuno di voi a leggerle.
Se tutto questo avvenire sia legato al caso o si dipani secondo un percorso prestabilito, certamente non dagli uomini, potrebbe già rappresentare un punto di riflessione. Ma ne scaturirebbe subito un altro dalla risposta ancor più difficile: perché ad esistere, in questo momento, siamo proprio io e proprio ognuno di voi e non altri al posto nostro?
L’unica certezza comune, che può derivare abbracciando sia la prima sia la seconda ipotesi, è il valore che acquista la nostra esistenza; valore ancor maggiore se la si vuol credere, congettura difficile da accettare se non per fede, inserita in un contesto finalizzato non si sa da chi e perché.
Sono le domande senza risposta che per secoli, fin dall’era in cui l’uomo ha cominciato a “ragionare con mente dispiegata e serena” (Vico), si sono poste schiere di pensatori, di filosofi, di umanisti, immergendosi sovente in speculazioni mentali che tali sono rimaste, valide solo ad innescare improduttivi contraddittori. Sono le domande di fronte alle quali la ragione e la scienza han dovuto arrendersi, aprendo la strada, sovente troppo larga, alle religioni ed alla fede. Altro risultato non sarebbe immaginabile né ipotizzabile. Ma la volontà di esaudirle è rimasta intatta; ed allora hanno prevalso le ipotesi più estreme, antitetiche tra loro: quella materialista, per cui tutto sarebbe frutto del caso e quindi destinato ad esaurirsi col termine della vita, e quella spiritualista, che vede nell’uomo la esistenza di un’ “anima”, destinata a sopravvivergli per l’eternità, e quindi frutto finalizzato di un essere creatore.
La prima ipotesi, quella materialista, è talmente negazionista da esaurire l’argomento in maniera abbastanza veloce e porre termine alla discussione; la seconda, anch’essa lungi dall’essere soddisfacente a lume di ragione, pone invece un altro grande problema: “che cosa è l’anima?”
Se avessimo la capacità di rispondere a questa domanda avremmo in parte risolto qualche quesito, ma la domanda “perché io e non un altro al posto mio?” resterebbe in piedi in tutta la sua drammaticità, e non basterebbe a moderarla l’accettazione della esistenza di un disegno divino, più grande di noi e pertanto incomprensibile; non avremmo risolto granché.
Va da sé che l’anima, per sua definizione, dovrebbe essere una entità assolutamente spirituale, difficile da comprendere nel suo interagire col mondo fisico, soprattutto nello stabilire quale dei due è in grado di influenzare l’altro, data per scontata la unicità ed individualità di ciascun uomo. Ognuno avrebbe la sua anima e questa nascerebbe con lui senza più morire per l’eternità, transeunte in altre dimensioni ed altri mondi la cui esistenza dobbiamo accettare per fede.
Prescindendo da ogni implicazione religiosa, la cosa più facile da pensare è che essa rappresenti quella che Cartesio chiamava “res cogitans”, cioè la nostra capacità di ragionare, di “intelligere”, di elaborare idee che provengono dalla “pars extensa”, cioè il nostro corpo dal quale derivano le nozioni che poi elaboriamo, e della cui veridicità non si può dubitare perché provenienti da Dio e non è pensabile che “Dio, che è assolutamente perfetto e veridico, le abbia poste nella nostra mente senza che fossero vere”. Ed alla domanda “ io che cosa sono?” Cartesio rispondeva nettamente di essere “pars cogitans”, cioè una attività pensante e non una sostanza pensante, “così come dal fatto che cammino o mangio si deduce che sono una attività camminante o mangiante e non una sostanza camminante o mangiante”. Questo fa dell’anima, per Cartesio, la parte costituente essenziale dell’uomo, di natura immateriale ed incorruttibile, diversa da quella degli animali, per i quali pure ne riconosce l’esistenza.
“Penso, e per il solo fatto di farlo io esisto” è la sintesi cartesiana; la perplessità che ne scaturisce è subito chiara: “e se io non pensassi, non esisterei?”. Tra i primi a formularsi la domanda fu il letterato e religioso del ‘700 Appiano Buonafede, al secolo Tito Benvenuto Buonafede (1716/1793), che, nella sua “ Della istoria e della indole di ogni filosofia” pubblicata con nome di Agatopisto Cromaziano, contesta fortemente il filosofo francese. Anche se il Buonafede non incontrò il successo della critica, tanto che Benedetto Croce definì le sue opere dettate da “un ingegno da predicatore e da predicatore mestierante, che ha un impegno da assolvere, un sentimento da inculcare, un nemico da abbattere» , nello specifico risulta essere abbastanza efficace. Va da sé che Buonafede non potesse piacere a Croce, filosofo dell’Idealismo, e Cartesio parlava appunto di attività pensante e non sostanza.
Per il momento mi fermo qui, sperando di aver stimolato la vostra attenzione. Ma continueremo, se di vostro interesse, in piccole dosi mensili.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XVIII 2021 - n. 10 Ottobre)