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"Al tacito morir d'un giorno inerte"

 

Non v’è più triste occasione di malinconia di quella che sorge sovente nell’animo delle persone attive e partecipative al “tacito morir d’un giorno inerte” (A. Manzoni “Il 5 maggio”).
Già Dante, nell’ ottavo canto del Purgatorio, aveva fatto riferimento a quell’ “ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core lo dì c'han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more;” e che coincide col crepuscolo, col “tacito morir d’un giorno”. Anche Carducci, nell’ode Piemonte, parlerà di crepuscolo, ma dei sensi, riferendosi al Re Carlo Alberto in punto di morte: “ Sfaceasi; e nel crepuscolo de i sensi tra le due vite al re davanti corse miranda una vision: di Nizza il marinaio biondo...”. È l’ora che sussegue al tramonto del sole, mentre cambiano dolcemente i colori intorno e ci si avvia verso il buio della notte. Facile anche intuire il traslato carducciano, indicante un momento estremo e irreversibile.
È quindi già il momento in cui siamo fisiologicamente esposti al triste sentimento della malinconia, stato d’animo che il vocabolario definisce “di vaga tristezza, spesso alimentato dall'indugio rassegnato o addirittura compiaciuto, nell'ambito di sentimenti d'inquietudine o delusione”.
Basterebbe solo questo dato astronomico a giustificare il sentimento di vaga tristezza, ma nella frase del Manzoni si aggiunge un altro carico, perché quel giorno che muore è stato “inerte”, come lo saranno tutti quelli dei sei anni vissuti da Napoleone sull’isola d’Elena, dopo il tracollo di Waterloo, sorvegliato, lui che aveva comandato il mondo, dal governatore inglese dell’isola, Hudson Lowe, che si rifiutava di chiamarlo Imperatore, e gli si rivolgeva con l’appellativo di Generale.
Una condanna così sottilmente perversa quale non avrebbe avuto eguali in una carcerazione o nella stessa esecuzione; in perfetto stile inglese.
Facile immaginarsi la continua sofferenza di quest’uomo quando, “al tacito morir d’un giorno inerte”, “dei dì che furono” lo assaliva il “sovvenir”; a poco serviva a lenirgli la cura la presenza di tre o quattro amici che lo avevano seguito in quel terribile esilio a Longwood. Gli si affollavano nella mente “le mobili tende ed i percorsi valli, il lampo dei manipoli e l’onda dei cavalli, il concitato imperio e il celere obbedir”; e lui era lì, inerte come il giorno trascorso, con le braccia conserte a scrutare l’oceano che lo separava di 1900 chilometri dalla sua Francia, che con la Rivoluzione ed il suo figlio corso aveva gettato le basi della storia moderna. A pensare all’ “aiglon”, suo erede, prigioniero del nonno imperatore d’Austria e a sua moglie Maria Luisa, che non ebbe per lui neppure una lacrima.
Il 5 maggio scorso si sono compiuti 200 anni dalla sua morte, avvenuta in quel confino dove era stato relegato dagli Inglesi perché non potesse “più nuocere al mondo”; quel mondo che intanto, con il congresso di Vienna, si preparava a riportare in auge l’Ancien Regime, fatto di monarchi imparruccati e di dame di corte.
Ma la Storia non torna indietro, e l’800 dimostrerà tutta la sua forza acquisita da quella esperienza rivoluzionaria e da quel personaggio che ne fu il principale diffusore nel trasformare il mondo.
Nel suo “crepuscolo dei sensi” la ultime parole furono “l’Armée”, “la téte de l’Armée” e “Josephine”, l’unica donna che, ricambiato nonostante tutto, aveva amato.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XVIII 2021 - n. 6 Giugno)