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«Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia,

è contro di me»
 

La “nazione”, dal latino “natio” (nascita), indica solitamente una comunità di individui affini per nascita, lingua, cultura, tradizioni, storia e, naturalmente, territorio geografico da essi occupato. Lo “stato”, invece, indica l'ordinamento giuridico, l'organizzazione politica, gli orientamenti sovrani di un popolo che, nella maggioranza dei casi, sia già “nazione”. Assetti, questi, sociologicamente stabilizzatisi solo nel corso degli ultimi due secoli.
Pertanto una “nazione”, come la intendiamo oggi, si identifica quasi sempre con uno “stato”, per l'appunto uno Stato-Nazione.
Premessa indispensabile per dipanare un discorso che, in epoca di globalizzazione e di superamento dei nazionalismi dominanti, come detto prima, la storia dell'ottocento, protesa soprattutto alle indipendenze nazionali, e del novecento, che aveva visto prevalere scontri tra gli “stati” per motivi di dominio e di interessi, dovrebbe essere tenuto sempre presente dai nostri politici.
L'Italia è infatti diventata contemporaneamente “stato-nazione” solo nel 1860, per effetto della sua unificazione geografica e politica.
A volerla fortemente furono in molti, ma a renderne possibile concretamente la realizzazione fu solo la geniale mente di Camillo Benso Conte di Cavour; fu la sua grandiosa intuizione che non si sarebbe mai attuata senza il contributo di altri stati-nazione già esistenti, come la Francia e l'Inghilterra. Così iniziò la sua infaticabile opera di avvicinamento del suo piccolo stato, il Piemonte, alla Europa intera; e per farlo ne curò prima lo sviluppo interno e poi, con assidua e accurata azione diplomatica, non esente da coinvolgimenti umani e passionali, ne impose la presenza con la partecipazione alla guerra dei Crimea. Il resto lo conosciamo bene; ma l'input fondamentale fu il coinvolgimento di una parte d'Europa.
Dopo il 1860 lo stato-nazione Italia ha compiuto imperdonabili errori: dai famosi “giri di valzer” fatti tra “Triplice Intesa” e “Triplice Alleanza” nel rincorrere un eventuale miglior tornaconto e che finì solo per farci denigrare da amici e nemici, alle proteste per una “vittoria mutilata”, che, date le premesse, non poteva che essere così, ed alla reazione che portò al fascismo. Che non fu solo aspetto nazionale, ma assurse a scuola di pensiero politico in Germania, dove Hitler si dichiarava allievo di Mussolini, in Spagna, e, pur se in minori proporzioni, anche in altri paesi europei.
Poi assurde idee di dominio ci portarono ad esasperate lotte coloniali ed infine ad entrare in una “guerra mondiale” nella quale avemmo la sfrontatezza di dichiarare guerra, noi poveri diseredati, ma alleati di una forte Germania, a ben altre 12 nazioni! Salvo per ultimo, cosa per noi non nuova, a cambiare alleato, ma non ad arrenderci, a guerra ormai finita.
Mi concederete anche il velocissimo “volo d'angelo”, ma pensate a quante cose, dal 1860 ad oggi, dobbiamo farci perdonare dagli altri Stati; e pensate alla grandezza morale, politica e diplomatica di Alcide De Gasperi alla conferenza della pace: “…sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”.
Tutto questo antefatto per arrivare dove?
A due semplici considerazioni. La prima, quella di Cavour, è che l'Italia è decentrata rispetto all'Europa; è forse più, direbbe qualche malevolo, l'estremo nord dell'Africa, forse anche geograficamente, che l'estremo sud del vecchio continente; e quando insceniamo ridicole ed egoistiche battaglie ambientaliste su opere, come la TAV per Lione, che servono ad avvicinarci fisicamente al centro del nostro continente, non facciamo altro che darci la zappa sui piedi. O quando qualche nostro politico di modestissimo spessore, ma di grande presunzione, (cose che marciano comunemente assieme), consapevole o meno del ruolo istituzionale che ricopre, si schiera maldestramente su posizioni dissidenti nate in un paese amico, come quelle dei “gilet gialli” in Francia, compromette grandemente la nostra credibilità ed affidabilità istituzionale.
La seconda considerazione nasce dalla prima e consiste nel fatto che, a supplire al nostro carattere nazionale bizzarro e inconcludente, abbiamo la unicità del territorio, dei più belli al mondo dalle Alpi alla Sicilia, la incomparabilità delle opere d'arte, frutto delle nostre capacità individuali, la universalità della nostra cultura, figlia di quella greca e latina, la eccezionalità del nostro clima e via discorrendo. Valgono certo molto a salvarci, nell'aspetto economico e referenziale, ma, in tempi mutati, non possiamo continuare a vivere di rendita.
E chissà se queste considerazioni non siano state palesemente o inconsapevolmente fatte dai governanti delle altre nazioni europee quando non ci concedono sforamenti economici o quando ci condannano a vedercela da soli con la marea migratoria degli ultimi anni.
Bisognerebbe che cominciassimo a chiederci se ancora tutto, tranne la loro personale cortesia, non sia contro di noi!
Un poco di realismo non guasta mai.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XVI 2019 - n. 2 Febbraio)