L'ASSOCIAZIONE
 
il Sidicino
 
Indice per autore
 
Indice Claudio Gliottone
 
 

Il popolo sovrano ha decretato

 

Domenica 13 giugno 2011: il “popolo sovrano” ha decretato, attraverso due referendum, che la gestione dei servizi utili e necessari, come la fornitura di acqua potabile, non debba prevedere alcuna retribuzione per chi li attua. In altre parole può essere affidata solo a enti pubblici che devono assicurare tale servizio anche rimettendoci di tasca propria, che poi è la tasca di tutti noi.
Domenica 9 giugno 2011: dai rubinetti di casa mia, come da quelli di tutto il paese, dalle ore 12,30, non esce più un filo d'acqua, manco a pagarlo con i soldi solo miei. Un solo pensiero attraversa la mia mente: fottiti, popolo sovrano!
Nella fattispecie il nostro acquedotto è tra i più disastrati d'Italia: preleviamo acqua da una infinità di pozzi sparsi su tutto il vasto territorio comunale, ogni tanto si scopre che qualcuno di essi presenta sostanze nocive in eccesso sulle quantità consentite (l'ultima di queste era nientemeno che il “romantico”, ma dannosissimo arsenico), la perdita dalle lunghe e consunte condotte viene valutata intorno al 75%, una notevole quantità d'acqua prelevata nel nostro territorio viene deviata a costo zero sul litorale domizio. Ma anche i teanesi si sono schierati contro un ammodernamento della gestione idrica, contro una liberalizzazione che comportasse un riordino della distribuzione ed una finalizzazione dei soldi che comunque paghiamo, e non in misura piccola, al Comune per un malandatissimo servizio.
La cosa, in sé e per sé intollerabile negli effetti, potrebbe esserlo ancor più in linea di principio: perché è la dimostrazione di più di una distorsione che si è andata accumulando nella mente degli italiani da almeno cinquant'anni in qua.
Il succo della principale distorsione mentale può essere riassunto nel convincimento che il “privato” rappresenta la quintessenza del male, la summa della perversione umana finalizzata allo sfruttamento totale, alla sopraffazione, alla ruberia cronica di un individuo forte e capace su un altro debole e indifeso, mentre il “pubblico” rappresenta il meglio, biblicamente e divinamente, di quanto si possa realizzare! E scusate se è poco!
“Tutto è buono soltanto nelle mani della società; tutto degenera nelle mani degli individui” avrebbe scritto oggi Rousseau ad apertura del suo “Emile”; il che potrebbe essere anche vero se la “società” non fosse composta da “individui”. Se l'assunto fosse vero la somma di più mali non porterebbe ad un bene, ma ad un male maggiore. In buona sostanza l'ente pubblico è costituito dagli stessi individui che potrebbero costituire l'ente privato, con tutte le magagne di disonestà e le aggravanti della inesistenza di un controllo che potrebbe esistere dei primi sui secondi e non viceversa. E la italica storia ce ne fornisce esempi quotidiani.
L'imprenditore privato è un ladro, un sopraffattore, e se per caso si trova anche a gestire un ente pubblico, come nel caso del nostro Presidente del Consiglio, lo fa esclusivamente per fini personali e di interesse: ma questo per assioma, per verità indimostrabile e universalmente accettata. Che risponda o meno a verità non conta.
Non voglio difendere né schierarmi con alcuno. Voglio solo continuare in una disamina che nel corso di cinquanta – sessanta anni ha portato ad una completa deresponsabilizzazione dell'individuo, ad una sua emarginazione decisionale, anche di scelte politiche, e gli ultimi risultati referendari paradossalmente dimostrano una volontaria ulteriore rinuncia alla assunzione di responsabilità individuali.
Ogni individuo non pensa, oggi, a quali siano le sue doti, le sue capacità, le sue propensioni naturali, con le quali e per le quali costruirsi un futuro; non si sente capace di fare, di produrre, di imporsi, di adattarsi, di confrontarsi, di affermarsi. A tutto deve pensare “il sociale”: alla mia istruzione, al lavoro, alla assistenza, alla mia famiglia, alla mia vecchiaia. E se qualcosa va storto non deriva dalla mia incapacità, a sua volta dovuta proprio ad un continuo delegare ad altri, ma dalle responsabilità del pubblico: della scuola che non insegna (non di me che non imparo), dei treni che sono sporchi (non di me che li sporco), della sanità che mi fa pagare il ticket (non di me che ho sprecato inutilmente medicine su medicine, ed ho praticato una risonanza magnetica anche per un patereccio), del comune che ha fatto la strada troppo liscia o ha lasciato una buca che può essersi formata anche mezz'ora prima che io passassi e nella quale sono inciampato (non di me che magari mi sono distratto o che non mi reggo in piedi), della commissione grandi rischi che non ha saputo prevedere un terremoto e mi ha rassicurato (non del Padreterno che, lode a Lui, può mandare tutti i terremoti del mondo quando gli pare e piace, anche cento e uno dopo l'altro), del tecnico che mi ha concesso la licenza edilizia (e non di me che ho costruito la casa nelle rogge o sulle pendici di un monte franoso), dello stato che non smaltisce i rifiuti (e non da me che ne produco cento volte di più di quanto sia lecito e non li differenzio come dovrei), dell'INPS che non mi concede la pensione (e non di me che non ho mai voluto fare un cacchio in vita mia), dello stato che non mi dà un lavoro (non di me che di lavorare proprio non ho voglia), e via discorrendo.
Eppure siamo un grande paese: abbiamo un'assistenza sanitaria che garantisce tutto a tutti, a noi e a tutti i cittadini comunitari ed extra che si trovino sul nostro territorio, accogliamo milioni di fuggiaschi dal nord Africa e dai paesi dell'est, partecipiamo alle “guerre umanitarie”, ricostruiamo i paesi distrutti dalle catastrofi naturali, diamo pensioni d'invalidità a non vedenti capaci di infilare l'ago e a zoppi capaci di correre i cento metri, rinunciamo a fonti energetiche economiche, soccorriamo altre nazioni in deficit, come la Grecia, ci permettiamo la classe politica più inutilmente costosa dell'universo, facciamo prosperare le associazioni delinquenziali più potenti del mondo, costruiamo inutilizzate e inutilizzabili cattedrali nel deserto. Ma i soldi, i soldi, dove li prendiamo?
Fino a quando potremo resistere pretendendo tutto da tutti, perché siamo convinti che la società, gli altri, tutto ci debbano, mentre ognuno di noi è sempre meno responsabile della gestione della sua vita?
Quando, perdio, riprenderemo ad insegnare ai nostri ragazzi che un terremoto può accadere anche a prescindere dalla massima organizzazione umana, che si può perdere l'equilibrio e cadere anche in assenza della buca non riempita dal comune, che ogni uomo è “faber fortunae suae” e non può pretendere dagli altri diritti che sono contro ogni logica? Che l'individuo, un uomo e solo un uomo, è alla base di tutta la “società”, e per fare buona questa bisogna fare buono quello? L'onestà, la laboriosità, la serietà, la solidarietà, sono qualità individuali: non nascono dalla società, ma dal singolo uomo e se questi non le possiede, o non gli insegniamo a possederle, come potrà trasferirle alla società?
Quando riprenderemo a non condurre le nostre libertà e le nostre voglie oltre il limite che delinea le libertà e le voglie degli altri, anziché rifuggire dalle nostre responsabilità decretando che debba essere “il sociale” a pensare a tutto, anche a fornire le libertà e le voglie degli altri, quelle che noi abbiamo calpestato e distrutto?
Quando smetteremo di essere ipocritamente egoisti giustificandoci col dire che a tutti deve pensare “il pubblico”?
Meno massa e più individui responsabili: perché l'uomo, checché ne dica Rousseau, è buono anche quando non è più “dans les mains de L'Auteur des choses” e neppure è lui la fonte di ogni degenerazione.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno VIII 2011 - n. 7 Luglio)