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Le janare? Non è vero ma ci credo

 

Il bel pezzo di Carlo Antuono "Le janare" pubblicato sul numero di aprile ha ridestato in me sopiti ricordi d'infanzia. Sono riaffiorati i tanti racconti ascoltati dai vecchietti secondo i quali non ci si poteva aspettare nulla di buono da chi nasceva la notte di Natale. Se maschio, era destinato a diventare lupo mannaro, se femmina sarebbe stata certamente una janara.
Nelle nostre frazioni, ma anche qui nel centro urbano, tante donne, forse perché malvage, brutte o zitelle, venivano additate come janare dotate di facoltà straordinarie. La paura delle janare era tanta che alle partorienti veniva regalata una medaglietta con l'effige di S. Anastasio da appuntare sui vestitini del neonato in attesa di potergliela porre al collo per proteggerlo dalle janare. In qualche casa del centro e in molte case delle frazioni, nonché in quasi tutte le masserie, dietro la porta d'ingresso venivano posti sacchetti di sabbia, scope o trecce di pannocchie dai filamenti blu violaceo, perché le janare, una volta entrate, non potevano fare a meno di contare i granelli di sabbia o i fili delle scope e delle pannocchie, così da essere impegnate l'intera notte e non poter fare danni alla casa. Allo stesso scopo c'era chi teneva sempre ben in vista, nei pressi dell'ingresso, un cesto di lenticchie.
Mi è tornato alla mente anche il racconto, ascoltato più volte da ragazzo da un'anziana donna, del funerale di Zi' 'Ntonia, una vecchia da tutti ritenuta janara. Quando due uomini andarono nel campanile per suonare le campane a lutto (nelle frazioni si usa annunciare così la morte di una persona), dovettere scappare perché dal campanile cadevano giù pietre come se piovesse. Contemporaneamente, nella camera dove giaceva la morta si udivano rumori assordanti di catene come se trascinassero qualcosa di molto pesante verso il camino acceso. Il giorno del funerale si dovette infine rinunziare a portare il feretro in chiesa perché i becchini venivano spinti fuori da un vento forte e misterioso e, in tanto scompiglio, bara cadde facendo finire il cadavere sui gradini della chiesa.
A questi racconti si è accompagnato il ricordo di qualche episodio di vita vissuta. Nell'ottobre del 1943 la mia famiglia era sfollata a Casi per sfuggire ai bombardamenti, ospite di Don Antonio che aveva generosamente messo a nostra disposizione la metà del suo appartamento. Ovviamente anche per noi ragazzi, forse più divertiti che impauriti dalle vicende belliche, saltarono allora tutte le abitudini di vita. Ci si svegliava immancabilmente all'alba per il trambusto provocato dagli animali con i quali si viveva in promiscuità; prima ancora che fosse giorno salivano dalla strada ragli di asini, belati di pecore e grugniti di maiali che venivano accompagnati al pascolo quasi sempre dai bambini perché gli uomini erano tutti alla macchia per paura dei tedeschi. e una di quelle mattine mi capitò di sentire don Antonio che diceva ad alcuni passanti: "Anche questa notte sono stato visitato dalle belle signore" e mostrava loro la sua bella giumenta dal manto baio sudatissima e con la criniera e la coda sistemate per bene con tante piccole trecce. La vidi anch'io e posso assicurare che quel lavoro aveva indubbiamente richiesto ore e ore, molta abilità e molta pazienza. Per don Antonio e gli altri le "belle signore" erano ovviamente le janare; per me ragazzo era tutto frutto di un abile scherzo.
Oggi però sono convinto che l'acconciatura di quella povera cavalla, sudata e spaventata, non era opera di una mente normale.
Il mio scetticismo di un tempo si è molto attenuato e dico anche io: non è vero, ma ci credo!

Pasquale Giorgio
(da Il Sidicino - Anno V 2008 - n. 5 Maggio)