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Vecchio paese o paese vecchio?

 

Ieri bellissima, chiara e calda giornata autunnale, mi sono affacciata al balcone che dà sulla stradina sconnessa che porta a casa mia per godere di questo colpo di coda dell'estate che non vuole andare via e mi sono immalinconita: il mio vecchio paese è diventato un paese vecchio.
Strade solitarie, non più nutrite dalla voce della vecchierella di stampo leopardiano che sedeva, novellando del suo buon tempo, con le vicine che come lei amavano abitare la via, condividere il pane appena sfornato, spartirsi i lavatoi per avere così il pretesto per chiacchierare.
Strade silenziose che non ricordano più i suoni che rallegravano l'aria dall'alba al tramonto, suoni selvatici e agresti che scandivano tempi diluiti, misurati dal sole e dalla luna.
Strade disabitate senza più bambini che una volta sapevano giocare con la fantasia perché ormai sono diventati tutti provetti karateki, danzatrici, musicisti o nuotatori.
Strade sporche con nugoli di cartacce che giocano col vento, corrono e si rincorrono senza che qualcuno ci faccia caso perché non è affar suo.
Strade ferite che mostrano lesioni profonde sulle quali si posa lo sguardo riprovevole ma rassegnato di chi pensa che ormai debba andare così e non c'è più nulla da fare perché sono ferite inguaribili.
Strade dimenticate che nessuno guarda perché non hanno padrone, non appartengono a nessuno, percorse ormai solo da rombi di motori e da asettiche persone che si incrociano e di tanto in tanto si fanno un cenno di saluto e via di corsa nelle loro belle case con interni confortevoli e arredate con gusto.
Non importa poi se quelle belle case fanno ala a stradine malridotte, hanno muri scrostati con la parietaria che fa capolino dalle crepe o sono intervallate da baracche di lamiera arrugginita che riparano automobili fiammanti.
Allora mi è stato chiaro che un paese diventa vecchio quando non è amato in quanto tale, quando non senti casa anche le strade e non ami gli anfratti e i vicoli che si dipartono da esse, quando chi ci abita non si sente parte di un condominio.
Un paese può morire soffocato dall'ignavia di abitanti che si sentono cittadini del mondo ma non paesani; vestirsi di paesanità significa abitare un luogo che ha una propria specificità, optare di essere un iponimo contro una uniformante iperonimia e vantarsene e combattere e scegliere e cambiare; vuol dire sentire le piazze, i marciapiedi, la chiesa, le facciate delle case, gli angoli delle vie, i balconi di tutti come se fossero la propria casa; invece ci si lamenta che il paese è fatiscente come ci si lamenta del tempo o dell'annata agraria che non ha prodotto frutti poi si scantona e via!
La cosa che più sconcerta è la rassegnazione, quasi una sorta di fatalismo, e la falsa credenza che “la casa” che si delinea oltre le mura domestiche non sia in realtà affar nostro ma sia esclusivamente compito di chi amministra la cosa pubblica.
Le cose non stanno proprio così!
È giusto che a loro venga ascritta la gestione, la regolazione e il controllo di un'urbanistica che sia in sintonia col paesaggio, ma a noi sia addebitata la cura, il decoro e l'attenzione verso il luogo in cui viviamo e soprattutto ci sia imputata la codardia nell'affrontare chi il problema potrebbe risolverlo.
A chi mi dirà che una stradina sconnessa o qualche muro scrostato è cosa irrisoria rispetto alle tasse, alla disoccupazione, alla precarietà del posto di lavoro rispondo che è l'approccio al problema non l'oggetto che misura la capacità di chi vuole risolvere un problema.
Diceva mia nonna “Chi tre cagli nun cura, tre cagli nun vale” (“Chi sottovaluta il poco, vale poco”).

Esterina De Rosa
(da Il Sidicino - Anno IX 2012 - n. 11 Novembre)