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L'enfasi della Pasqua e "Il Giona di Teano"

 
Una generazione malvagia e perversa chiede un segno,
ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona profeta.
Perché, come Giona ristette tre giorni e tre notti nel ventre del pesce,
così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra.
(Mt. XII, 39-40)
 

Da piccolo oltre alle avventure di Paperino & i 3 Nipotini con Paperone, Paperina, Gastone, Nonna Papera, Ciccio, Clarabella e quel saputone di Pico de'Paperis leggevo “Tiramolla”: un fumetto scalcinato e disarticolato che a dire il vero non mi attizzava granché.
C'era solo un ometto con gli occhiali dalla spessa montatura all'Andreotti, bombetta, ombrello e abito rigorosamente scuro e stazzonato che m'incuriosiva e a volte mi divertiva con quella sua aria seriosa e leggermente snob. Sembrava l'onorevole Fanfani privo dei baffetti alla Hitler e di accademica sufficienza. Il divertente dell'omino consisteva nel fatto che era un fior di menagramo aliàs uno sgargiante iettatore e ci si può immaginare cosa poteva accadere a chi aveva la simpatica sorte di imbattervisi.
Il disegnatore lo aveva battezzato Giona ma non aveva proprio niente a che vedere né col Giona biblico né tanto meno con la compagna balena che lo aveva allegramente inghiottito per un non tanto imperscrutabile disegno divino.
Il Giona dell'Antico Testamento lo incontrai quasi per caso a scuola di Catechismo una sonnolenta sera di aprile quando le rondini sorvolavano eleganti e discrete la monumentale chiesa di S. Francesco. Ce ne parlava soporiferamente una stagionata signorina che sembrava una miss inglese capitata nella terra felice dei Sidicini per intervento di umoristiche fate.
Il Giona veterotestamentario, in effetti, anche lui era un personaggio sui generis, che fece l'esatto contrario di quello che come profeta, seppur minore, avrebbe dovuto fare.
Invece di ascoltare la voce di Dio che gli ingiungeva perentoriamente di convertire i dissoluti e disobbedienti abitanti di Ninive Giona che evidentemente non era un cuor di leone preferì battersela a gambe levate a bordo di una nave mercenaria diretta a Tarsis (forse nella perduta terra di Atlantide), oltre i confini dell'estremo Occidente, ma nel corso della traversata un violento fortunale angosciò i naviganti.
Giona finalmente capì l'antifona e, ritrovato animo e coraggio, propose ai marinai di scaraventarlo in mare.
Non se lo fecero ripetere due volte precipitando veloci il malcapitato profeta nei flutti turbolenti. Il mare come per incanto si placò e i marinai pagani offrirono sacrifici e voti al Signore degli Ebrei rivolgendo un pensiero di gratitudine anche al povero Giona che ci aveva rimesso le penne in cambio della loro salvezza.
L'uomo di Dio non perì, un pesce, un grande pesce si limitò a inghiottirlo e a risputarlo compiendo in tal modo ciò che il divino volere aveva stabilito per il disobbediente vate.
Il vero protagonista della parabola in effetti cos'era? Una balena, un cetaceo, un capodoglio, un pistrice, leggendario mostro marino ravvisabile nelle mappe nautiche dai Greci fino al Rinascimento simbolo allegorico della paura dell'ignoto, o più semplicemente un grosso tonno?
Questi interrogativi non trovano risposte, o meglio le trovano tutte nella geniale e fresca inventiva degli artisti che rappresentarono Giona e il suo pesce in tutte le maniere più inconsuete e più curiose, in miriadi di svariati paralleli iconografici. La storia di Giona, profeta controvoglia, è stata inoltre fonte ispiratoria di favole e terrori in tutti i tempi e presso tutte le culture marinare della Terra, basta fare riferimento al nostrano Pinocchio, alla più terrorizzante balena bianca di stevensoniana memoria, ad Astolfo che oltre a recuperare sulla luna il senno del forsennato Orlando si lascia simpaticamente ingollare da una balena o infine al simpaticissimo mitomane barone di Münchausen che della sua avventura immaginaria fa oggetto di mistificanti, ridanciane fandonie.
E' perfino menzionato dal Corano nella Sura di Giona (Sura X vs. 98) col nome di Yūnus o anche Dhūl-nun l'uomo della balena.
Un bel frammento in marmo finemente scolpito dell'ambone che “Il Padre Pandulfo”, o forse il suo predecessore Guglielmo sui variopinti binari dell'irripetibile primavera artistica desideriana, “volle tra le cose di maggior pregio” nella sua coloratissima cattedrale è adesso confinato in sordina in una delle piccole sale della cripta di S. Paride. In una cripta che vegliò amorevolmente per secoli e secoli le venerabili spoglie del Santo Patrono di Teano e dell'intera Diocesi e alla quale, invece di superflue quanto dispendiose dispersioni, andrebbe necessariamente riservato qualche veridico interesse in più, e dal punto di vista della preservazione manutentiva e da quello della riattualizzazione in chiave espositiva. Una cripta decisamente richiesta e felicemente risolta dalla determinazione mitica dell'ancor più mitico Mons. Sperandeo, allestita quasi senza mezzi e con grandi sacrifici da un eterogeneo ma consistente branco di “disperati” diretto e supportato dall'impareggiabile Guido Zarone. Qualche anno fa venne perfino insolentemente spogliata e depredata di alcuni suoi pezzi tra i più emblematici. Si provvide col senno del poi a sprangarla saldamente come un bunker, ma senza attenzione o riguardo per i visitatori ora versa in quasi delirante abbandono tra polvere, ragnatele e variegata sporcizia in attesa di un'incisiva quanto dignitosa valorizzazione che ne permetta una visita decente e un eventuale studio di parecchie evidenze scultoree ed epigrafiche ancora inedite e interessanti se non da un punto di vista estetico-formale, con assoluta certezza da quello storico-documentale.
Nel frammento di Teano di autore ignoto, espressivo documento archeologico e teologico iconografico di ottimo livello, apposto di fronte a uno stupendo bassorilievo di epoca longobarda raffigurante uno stilizzato maestoso leone di superba eleganza decorativa, del pesce si può appena intravvedere ora la pinna caudale in bella vista ridotta a quattro strie segmentate.
Ma di Giona per fortuna resta ancora il bel volto rappresentato in modi “barbarici”: dagli occhi un poco obliqui e spiritati, l'esigua fronte accentuatamente aggrondata, il collo affusolato,la bocca appena appena contratta in una piega amara, il filiforme naso a punto esclamativo che definisce l'arcata delle distese sopracciglia, la barbetta ben curata , i capelli fluidi nelle onde vorticanti, talmente fluidi che le onde su onde nella tumultuosa fissità della scena si fondono e si confondono con la folta capigliatura del nostro baldo e ardimentoso eroe in un voluttuoso amalgama di un'esaltante, perfetta sintesi compositiva.
Il torace arditamente sbilenco del profeta sembra nella fin troppo adamantina invenzione dell'artista medievale, con molta probabilità di formazione artistica longobarda, una variante di qualche mistico e misterioso segno druidico.
Nel bassorilievo si può rilevare una forte tendenza a stilizzare la figura umana con un particolare risalto per le onde, al fine di inventarsi con raffinata sapienza creativa superfici animate da intricati grovigli vibranti e si può dire tempestosamente gorgoglianti sotto la luce. In più si nota come la levigata, quasi trasparente figura del disubbidiente profeta appare risolta con delle contradditorie sproporzioni formali, una voluta, quasi studiata disarmonia plastica al fine di sottolinearne incisivamente il gesto funzionale, in altri termini le proiezioni natatorie del soggetto rappresentatovi.
Il racconto di Giona e la balena è condotto qui su un registro meno accademico e fastoso degli altri esemplari consimili (vedasi tra gli altri il reperto lapideo della cattedrale di Sessa). Più lineare e schematizzato, con soffice sobrietà il Giona di Teano si adatta a un linguaggio artistico e a una configurazione stilistica di più essenziale lettura con tutto l' estenuante, diafano incanto della docile flessuosità delle onde incalzanti la fluviale chioma del profeta, che ne costituisce il motivo conduttore.
Il trionfo della cosiddetta arte barbarica sulla classica compostezza della classicità espressa in formule plastiche e di puro decorativismo. Il mostro inghiottitore è anche uno dei modi simbolici che l'arte cristiana ha mutuato dall'arte classica, il cui riferimento più calzante è quello di Giasone nel momento più cruciale della ricerca del vello d'oro.
Quello che però importa è che Giona non muore; non deve e non può perché pentito in extremis della proditoria diserzione.
Inconsueto è solo lo strumento dello scampo: la grande balena sul conto della quale il libro di Giona non è stato più esplicito.
Quel pesce immenso nel ventre del quale si completa il processo redentivo di Giona al punto tale che Gesù se ne serve abilmente come estatica metafora della sua morte e resurrezione in uno dei tanti incontri “in punta di piedi” con i suoi seguaci.
Morte e resurrezione della quale il nostro eroe da recalcitrante profeta si trascende in puro simbolo e “ il segno di Giona “, il pesce (ἰχθύς in greco, iniziali di Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore) dal cui grembo rigermoglia la vita diventerà uno dei primi simboli paleocristiani, sempre magistralmente e diffusamente interpretato nell'arte catacombale e sui primi sarcofagi scolpiti.
Il libro di Giona: una complessa, delicata, convincente narrazione che si materializzò splendidamente limpida a Teano nella fluida, trasognata, languida lastra della cripta di S. Paride per opera di un ignoto scultore dall'estro “barbarico” e si espresse felicemente simbolica in Palestina nella misterica enfatizzazione della Pasqua.

Giulio De Monaco
(da Il Sidicino - Anno VI 2009 - n. 4 Aprile)

(foto di Mimmo Feola)