L'ASSOCIAZIONE
 
il Sidicino
 
Indice per autore
 
Indice Nello Boragine
 
 

Ciente rucati cient'amici - Niente rucati nient'amici

 
al tempo dei Garibaldesi i ducati viaggiavano in carrozzino
 

Nel secondo dopoguerra in via S. Antonio Abate, dove non c'era il porticato insisteva una fitta teoria di locali e fabbricati che, non si sa se per effetto della cabala o di un superiore disegno, erano stati risparmiati dal bombardamento alleato che, sempre per effetto di scelte a noi ignote, aveva raso al suolo tutto il complesso di fabbricati che fronteggiava da una parte la chiesa della Madonna delle Grazie e dall'altra la chiesetta, oggi sconsacrata, di San Vito, sviluppandosi a ovest con la famosa “pigna ru Ruca”, sulle cui macerie sorge oggi l'edificio scolastico elementare.
La ragione dell'accostamento dei due rioni sta nel termine “ruca” che, come i teanesi sanno, sta per “duca”, da cui deriva ducato o, in dialetto, rucato. Ci piace ricordare che sulla sinistra della discesa del borgo S. Antuono abitavano e lavoravano soggetti e famiglie che in grandissima parte non sono più tra noi. Pensiamo, e ricordiamo con rispetto e commozione, ad esempio: masto Giuvann Pulac (Martino, noto imprenditore edile), Peppone (Peppin 'o cacciutt), che con la moglie Romilda e la suocera zì Brasila a siringara gestiva un modesto negozio di ortofrutta, Girard Casaquintale (u panettiere) con la moglie Marinella e la figlia Nanninella, dove ragazzino andavo a ritirare il pane con la “tessera”, e spesso con la biada e la crusca dentro, ed ancora con la “ionda”, che però non arrivava mai a casa, e qui la “Gestapo” tuonava minacciosa: “Solo a te non danno mai la ionda”. Ed ancora: Mastandonio l'acquaiuolo (Giusto) che conosceva il nostro acquedotto come le proprie tasche; la salumeria di Gaetano Laurenza, con abitazione sovrastante, figlio e dirimpettaio della popolarissima Ndunetta 'e pope, che gestiva una accorsata osteria-trattoria; la numerosa e laboriosa famiglia Giorgio, della quale ricordiamo il nostro coetaneo e fraterno amico Michele, precocemente emigrato in terra elvetica; Ulderico 'u cantiniere, la cui osteria confinava con la chiesetta di S. Antuono; i due fratelli fabbri sordomuti (Coppola) la cui giornata lavorativa iniziava talvolta prima dell'alba: una sera vennero alle mani (due contro uno…) con il precedente nei pressi dell'Arco di Porta Napoli. Allora qualche adulto disse che i sordomuti le botte non le sentono né quando le prendono né quando le danno, mentre tutti noi ragazzi tifavamo per il longilineo e coraggioso vinaio, indifferenti al terrore nel quale vivevano i suoi tre figli, in particolare Medoro, nostro caro amico, anch'egli attratto giovanissimo dalla terra di Rousseau e di Guglielmo Tell. Come dimenticare poi il mitico biciclettista Monaco, al quale subentrò il figlio Salvatore, e buon ultimo, il paziente e generoso Paride Chiappinelli, soprannominato Piciucio. Qui noleggiavo ogni volta che potevo (tariffa cento lire per mezza giornata) una bici per le mie pazze corse adolescenziali, oppure per le settimanali tappe scolastiche a Marzano Appio o, più spesso, per missioni… musicali!
Numerose altre famiglie vivevano nelle scomode abitazioni del rione sommariamente radiografato; spesso si sfiorava la promiscuità e nessuno aveva l'acqua corrente in casa. Eppure i nuclei familiari che le occupavano ne facevano dei luoghi caldi ed accoglienti, dove convivevano talvolta miseria e nobiltà, ma c'era sempre la possibilità di aggiungere un posto a tavola, anche se seduti sulla sponda del letto. Pilastri dell'unità e della forza delle famiglie erano l'amore, la pace, la tolleranza, il rispetto per gli anziani e un grande spirito di adattamento.
Tornano alla memoria, ancora, le famiglie Maione, De Padova, Citrullesse, Lisandro 'u sacrestano, e buon ultima, ma solo per comodità di trattazione, la nota e simpatica Vicenzina cient rucati, moglie di un onesto operaio e madre di tre figli oggi residenti nella capitale: Lidia, Guido e Vittorio, nostro compagno di avventura.
Per la popolarissima Vincenzina quello del proverbio ricordato nel titolo era un chiodo fisso, quasi un bigliettino da visita, un mantra col quale soleva introdurre le sue geremiadi che puntualmente sconfinavano nella fede e nel vangelo, con l'inevitabile riferimento alle “ghiande” della nota parabola del figliol prodigo. La chiusa, poi, era scontata: “fino a che ce stevano i rucati a pigna ru ruca era affullata; fernuto 'u renaro, ce rimanette sulo Sabbatino 'o scalaro”.
A questo punto per i Teanesi, che fanno rima con i “garibaldesi”, è forse il caso di fare un salto indietro nella storia e, senza perdere d'occhio l'oggi, affondare il coltello nella piaga e rinfrescarci idee e memoria nel mare magnum del dio denaro, che un secolo e mezzo fa viaggiava ufficialmente o clandestinamente in carrozzina, sotto mentite spoglie: o, meglio, col nome di ducati. Alla prossima puntata.

Nello Boragine
(da Il Sidicino - Anno X 2013 - n. 2 Febbraio)