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Un incubo di mezzo secolo fa

 
Una strana avventura sidicina tra albanesi in terra irpina
 

Il titolo sembra un compendio di antropologia: così è (se vi pare).
Correva l'anno 1962 e nel giorno di S. Francesco, a Greci, in Irpinia, (21 m sul livello del mare e poco più di 800 anime), le ottobrate nostrane si consegnarono ad un ricordo misurabile temporalmente in pochissime ore, ma climaticamente sembrarono addirittura cambiare latitudine. E così, tra un fiocco e l'altro che inattese tramontane spedivano come tanti minuscoli puntini attraverso il corso Skanderbeg (il budello principale della piccola colonia albanese) contro il Breggo, una collinetta a sud del borgo montano già semispopolato che corrispondeva, in sedicesimo, alla nostra collina di S. Antonio, prendemmo possesso del nuovo domicilio.
Diecimila lire al mese, naturalmente anticipate; prendere o lasciare, aveva sentenziato con un filo di voce il proprietario dal suo decubito esattamente una settimana prima.
Non sapremo mia se quell'esoso canone accelerò o rallentò, confortò o tormentò il trapasso del fu Demetrio Panella. Sta di fatto che il nostro insediamento nella nuova comunità ebbe un impatto a dir poco “originale”, ai limiti dell'esoterico: potevamo intanto sottrarci al rito funebre?
Appena entrati nel salone della camera ardente, illuminata solo da ceri giganti e pavimentata con terriccio cimiteriale sul quale erano stati stesi a forma di croce due lunghi drappi neri, dovemmo prendere posto su uno scanno assicurato alla parete a capo del morto; altri due scanni erano fissati alle pareti laterali. Tutto lo spazio che fronteggiava il catafalco era riservato ad un gruppo di esseri le cui sembianze facevano pensare agli zombi che, nei loro riti macabri, pretendevano di richiamare in vita il defunto, sessantaduenne e padre di due figli. Egli invece sembrava del tutto indifferente alle danze, alle litanie, ai canti, alle lamentazioni, ai pianti ed alle lacrime, invero rade e restie a solcare le gote, di una decina di donne che identificammo come tali solo per le chiome, tutte lunghissime, sciolte ed oscillanti all'unisono e candide come la neve che intanto cominciava a posarsi sui tetti. L'abbigliamento, rigorosamente nero dal collo ai calcagni nudi, consisteva in una specie di tunica tronco-conica, fissata in vita con una stretta fascia rossa recante anteriormente e posteriormente un'Aquila nera stilizzata, un marchio a denominazione d'origine controllata: l'Albania.
A dispetto del nome erano infatti d'origine albanese gli abitanti che intorno al 1520 avevano popolato quel paesello arroccato sull'Appennino Campano, pochi km a sud di Ariano Irpino. Un piccolo comune totalmente interdetto all'industria ed inchiodato alla vegetazione tipica dei monti dell'Irpinia: la sua economia si basava sull'emigrazione (specialmente Germania Ovest) e su poche e povere risorse locali: pubblico impiego (con pendolarismo settimanale nei capoluoghi principali viciniori), tre artigiani tuttofare, un camionista peso massimo (Giovannone), un rappresentante della pasta di Capitanata, tre negozi alimentari, un caffè (che faceva pensare al nostrano gestito da “Bonasera”), un bar-trattoria, un tabacchino, una pensioncina di tipo familiare, un noleggiatore di nome Trentino, che si fermava solo quando la neve isolava il paesino, un ufficio postale gestito da una sorta di “capostazione di Maiorisi”, una decina di maestri elementari, una guardia forestale, una comunale, un brigadiere e due carabinieri, il medico condotto ed una ostetrica. Il parco macchine non superava le dieci unità; più della metà erano “cinquecento”, alle quali faceva da contrappunto nientemeno che una “Ferrari”, di proprietà del figlio di un nostro vicino di casa, Don Arnaldo, suocero del proprietario della fabbrica sidicina “La Precisa”. Non mancava una scuola materna, gestita dalle suore, la chiesa con un arciprete, ed una vecchia autocorriera che collegava il paesello con lo scalo ferroviario ed il resto della penisola.
Quello di Greci è l'unico caso di insediamento albanese in Campania; nel Molise ve ne sono tre, Ururi, Portocannone e Campomarino; in Calabria Spezzano Albanese e in Sicilia Piana degli Albanesi, fondata nel 1488 da un gruppo di albanesi profughi dell'Impero Ottomano.
Ma, tornando a quelle strane creature che di femminile avevano solo i capelli e la voce “nonna” (di testa, acuta, acidula e dolce allo stesso tempo, come quella della nonna di Cappuccetto Rosso), non possiamo più tacerne la vera identità ed il ruolo: erano le prefiche!
Che momenti e che brividi, ragazzi… E che sforzi indicibili per non ridere, specialmente quando una delle lamentatrici (forse prezzolate, forse no) rimase senza parrucca perché la collega retrostante, per non cadere a seguito di un saltello maldestro, s'era aggrappata ai capelli della prima, che scoprimmo chiamarsi Sinuccia, vezzeggiativo di Caroseno, che nella nostra lingua corrisponde a Rosina. Altre portavano nomi a volte italiani o italianizzati e a volte di chiara origine albanese: Ermenegilda, Otina, Nettina, Nettona, Nuccia, Siuccia, Bukkur, Mirdizia, Semania…
I loro lai erano degno della miglior causa: quelle prefiche sembravano tutte delle consumate professioniste che si muovevano all'unisono con melodie in lingua albanese e ritmi eseguiti a rigor di tempo con le mani. Riuscivano a produrre effetti sonori speciali che sembravano portarci lontano, anche grazie alle strane figure che mani e braccia disegnavano nel vuoto, mentre le teste ora si rovesciavano all'indietro, quasi ad incontrare la schiena, ora si schiacciavano in avanti contro un torace ora piatto. Sembravano davvero indemoniate e noi, tre anonimi sidicini, dovevamo sembrare dei marziani agli occhi ed alle orecchie di quella colonia di oriundi albanesi i quali, tra l'altro, non avevano un dialetto: o parlavano albanese o italiano.
A sciogliere quella specie di nodo kafkiano e a chiudere in chiave semiseria l'imprevista avventura d'una famigliola sidicina finita per ragioni professionali tra albanesi in terra irpina ci pensò Ciriaco, un gigantesco pastore tedesco che il suo padrone, Don Camillo, al secolo Don Adolfo, arciprete dell'unica parrocchia, avrebbe voluto chiamare Alcide; ma suo fratello Tonino, collocatore, gli aveva fatto notare che De Gasperi era troppo lontano nel tempo e nello spazio. Viceversa Nusco e De Mita, all'epoca astro nascente della DC e pioniere della svolta a sinistra, erano molto più vicini ed attuali.
La danza macabra, col rumore sinistro delle ossa dei morti danzanti affidato allo schiocco inimitabile delle dita delle danzatrici, ebbe termine proprio con l'ingresso del bestione nella camera ardente e, quasi obbedendo ad una occulta regia, corrispose con una piroetta della prefiche che si disposero in duplice fila parallela, come un corridoio nel quale Ciriaco si infilò per raggiungere il catafalco ed annusare l'estinto. Poi fece dietrofront e puntò deciso e minaccioso verso Peppone, Sindaco social comunista di Greci, il quale, capito il messaggio, tolse il disturbo, uscendo per la scala di servizio per evitare l'imbarazzante incontro con Don Camillo…
È proprio vero: non c'è matrimonio senza lacrime, né funerale senza risate!

Nello Boragine
(da Il Sidicino - Anno IX 2012 - n. 5 Maggio)