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Da Porta Napoli a... Forza Napoli

 

È proprio vero, l'assassino torna sempre sul luogo del delitto e noi, metaforicamente, lo facciamo spesso e volentieri. Questa volta onoriamo l'impegno assunto in una puntata precedente, quella dedicata, appunto, all'Arco di Porta Napoli. Di esso, come sottintende l'anacoluto della seconda parte del titolo, personalmente custodiamo indelebile a parlante lo stigma, nella memoria e nel soma, avendolo conosciuto e vissuta tra fanciullezza e adolescenza come il nostro quartier generale, una sorta di “bronx” che andava, per l'appunto, dall'arco fino ai gradoni del carcere vecchio, a ridosso della chiesetta di S. Michele.
Comprendeva, secondo noi ragazzi che per una sorta di auto investitura di ius soli o sanguinis ci sentivamo i legittimi titolari e custodi dell'Arco, la Torretta, la Viola, la zona di S. Michele con l'annessa breve rientranza laterale di destra, cieca, erta e scoscesa e la zona di S. Maria de Foris, al cui inizio era inserita l'osteria di Lucariello, tanto cara al torrettano Carminuccio o' zucazizze ed al suo fedelissimo quattro zampe, condannato a rimanere fuori perché aveva il torto di chiamarsi pure lui Lucariello!
Ma il cuore pulsante del nostro Bronx era il declivio rettangolare dai confini ben precisi: dall'arco a salire fino all'ingresso della scuola Garibaldi. È appena il caso di ricordare che al tempo cui si riferiscono le avventure, ed anche qualche disavventura, che qui revochiamo con levità e qualche vena di umorismo, miste a rimpianti e nostalgie incancellabili, di fronte alla chiesa della Madonna delle Grazie c'erano un muretto di contenimento e tante, tante…macerie che la guerra ci aveva portato in dono senza badare a spese. E senza che noi ragazzi, per fortuna, ce ne accorgessimo.
Intorno c'erano macerie e miseria e noi, beata incoscienza, eravamo vivaci e felici, chiassosi e sazi del vuoto, del niente da cui eravamo circondati e di cui quotidianamente ci nutrivamo. Bastavano un mucchietto di carta o qualche straccio ed ecco una palla, un mini pallone che trasformava il declivio individuato in un campo di calcio (quello del Napoli, naturalmente) che di norma profanato o disturbato raramente dal traffico: in una giornata il numero degli automezzi, delle biciclette o dei carri agricoli che attraversavano il nostro arco non superava la cinquantina.
A parte le rare interruzioni per il traffico, le nostre partite si dissolvevano con la velocità del suono solo se compariva il parroco della chiesa, don Paride Crescenzo, un sant'uomo che, forse abituato a tormentare le sue carni (si dice) col cilicio, non si rendeva conto del dolore che le sue dita provocavano sulle nostre braccia ogni volta che, in sacrestia, si ricordava di punire qualche nostra malefatta consumata durante la cerimonia religiosa e così, al nostro “prosit” rispondeva congiuntamente con la bocca (etiamvobis) e con pizzicotti che lasciavano il segno.
Un trattamento speciale veniva riservatoa chi scrive perché, come organista, uscivo spesso dal seminato, musicalmente parlando! Altre sospensioni e conclusioni istantanee delle nostre sfide, sempre al grido di “forza Napoli” a prescindere dalle formazioni, erano quelle provocate dalla comparsa improvvisa della mamma di qualcuno dei campioni in campo. Meazza, Piola, Sentimento IV, Pandolfini, Ferraris… (non erano del Napoli? E che importa? Noi “archigiani” non eravamo forse tutti di Porta Napoli?) o di una guardia municipale, come allora si chiamavano.
Il più presente e, a torto, il più temuto, era TotonnoNtorzapecora: forse a causa dei suoi lunghi e riccioluti baffi color nocciola, apparentemente deputati a sonorizzare le minacce. Ma attenzione! Non si lasciava mia la palla (o ciò che le somigliava) sul campo, pardon sulla strada, anche perché spesso bisognava recuperare la calza che qualcuno di noi aveva incoscientemente messo a disposizione per imbottirla di carta e farne un simil-pallone.
A salvare il prezioso trofeo, chi l'avrebbe mai detto, era sempre lui: Vangelista – e per motivi di buongusto ne omettiamo il soprannome, per riparare idealmente alla malagrazia di un residuato bellico che gli aveva portato via dalla mano destra le tre dita dopo l'indice. Ti ricordo e ti rivedo, carissimo e fraterno amico mio, ormai “civisromanus”; testimone, come me d'un crepuscolo che va ben oltre quello wagneriano degli dei, e malinconico custode dei nostri memorabili scontri a “battimuro”, combattuti quasi sempre sotto la volta di zìNtonio, Martulella e Nannina a' regina, che ogni tanto ci metteva in fuga con la scopa!
Vangelì, ora lo puoi confessare: ma come facevi a vincere sempre tu? E meno male che erano bottoni, che noi comunemente chiamavamo “formelle” o “cucciulanti” (questi valevano il doppio e talvolta il triplo delle prime). Ma bottoni fa rima con schiaffoni; quelli che toccavano a me quando tornavo a casa e scattavano i controlli materni!
Rivedo e ricordo teneramente e volentieri anche gli altri nostri compagni di gioco e di avventura, ma anche di sfide ed imprese più grandi di noi, come quelle giurate e consacrate all'ostracismo dall'Arco ai nostri “nemici”, quelli di altre contrade o rioni: gli abatini, i nunziatini, i marianovesi: questi erano i più subdoli e pericolosi. Si faceva una sola eccezione: nel bronx erano ammessi solo i fratelli xxxxxxx; perché portavano il pallone, un pallone vero. E allora, alè, si volava tutti in trasferta al cosiddetto “campo di Liseo”, non molto lontano dal nostro Arco di Porta Napoli, al quale ci univa e ci legava, esaltandoci e gratificandoci, un solo grido, un solo ideale, un solo simbolo ed anelito: “Forza Napoli”!
E parafrasando, senza saperlo, il famoso “vaevictis”, noi archigiani gridavamo ai nostri nemici, ossia a quelli che pretendevano di entrare o, peggio, di sostare nella nostra riserva: guai a voi!
Qualcuno non ci prese sul serio e finì per beccarsi la giusta e meritata lezione.
Torneremo sull'argomento appena possibile.

Nello Boragine
(da Il Sidicino - Anno IX 2012 - n. 3 Marzo)