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Soldati d'Italia, Brava gente! Rispetto ed Onore

 

Come è noto, le Forze Armate italiane negli ultimi trentacinque anni hanno dovuto adeguarsi a nuovi scenari, a nuove sfide e soprattutto alle nuove guerre. Negli anni venti - quaranta si combatteva uno stato contro l'altro e tutto era chiaro: c'erano i militari e c'erano civili, c'era la zona di combattimento e c'era la Patria, c'era la pace e c'era la guerra.
Le guerre moderne al contrario sono incerte, vengono definite “guerre asimmetriche”, da una parte i ribelli, i terroristi, dall'altra gli eserciti veri e propri. Oggi i soldati si chiamano peace-keepers, sono inviati sulla base di accordi internazionali a mantenere la pace nei vari paesi, vedasi la Bosnia-Erzegovina, il Kosovo, l'Afghanistan, l'Iraq, il Libano e capita spesso che quando arrivano in teatro operativo hanno in mano solo una risoluzione O N U scritta in politichese da un gruppo di diplomatici a New York e devono “implementarla” come si dice in gergo. Così più che mantenere la pace debbono costruirla, se non inventarla: gli è chiesto di saper usare le armi in dotazione, ma anche di proteggere la popolazione, di saper parlare con i diplomatici, colloquiare con i capi dell'etnia, di rispettare le regole d'ingaggio che il loro governo stabilisce, ma anche di investirsi di un ruolo insolito quale ingegneri, medici, avvocati in questi conflitti sempre più complicati, in una avveniristica bolgia di etnie, culture, religioni, sensibilità, storie. È un compito così difficile che il segretario delle Nazioni Unite ebbe a dire: «il peacekeeping non è un lavoro per soldati, ma solo i soldati possono farlo».
Eccezionali? Non li citerei così. Sono uomini normali che hanno scelto di indossare una divisa e fare il proprio lavoro. Desiderio di una carriera a contatto con la gente? Un mutuo da pagare? Un amore finito? Un desiderio di gioventù? Qualsiasi sia la causa che li spinge ad indossare una uniforme sono semplicemente uomini che fanno il proprio dovere. I nostri soldati sono chiamati a portare la sicurezza dentro le città, nelle strade di Sad City, di Kandhar, o sul ponte di Mitrovica. E come durante l'ultima guerra mondiale militari e civili periscono insieme.
Si, certo oggi ci sono i “predator”, le mappe tridimensionali, il satellite che ti fa vedere il territorio persino nelle strade. Non devi attendere giorni per parlare con i familiari, la fidanzata, ma puoi utilizzare internet o parlare con il telefonino. C'è la televisione che con le sue immagini porta tutti in prima linea, a sentire, a volte, il rumore dei proiettili, a vedere le tempeste di sabbia nel deserto, la sofferenza dei feriti, la vita di tutti i giorni; la TV che a Natale e a Pasqua dedica un servizio al pranzo dei militari che fa frignare a casa i propri familiari.
Il coraggio e lo spirito di sacrificio dei soldati è sempre lo stesso, pari a quelli d'un tempo. Anche la morte è sempre la stessa: arriva con una telefonata al Comando Stazione Carabinieri più vicino a casa, una notizia dell'ANSA, un Cappellano. Poi il picchetto d'onore dei tuoi commilitoni ed il C 130 che ti riporta a casa, il Presidente della Repubblica e tutto lo staff istituzionale.
Le gesta dei nostri soldati sono senza ombra di dubbio d'esempio alle nuove generazioni, non solo in Italia, ma anche in quei paesi dove vanno a realizzare la pace e la sicurezza.
Sarebbe bello se tra cinquant'anni quelli che oggi sono i bambini Bosniaci, Kosovari, Iracheni, Afgani, Libanesi ecc. ecc., si ricordassero che sono stati i soldati italiani a ricostruire i loro ponti, la loro ferrovia tra Kosovo-Polje e Mitrovica, a far ripartire la loro centrale elettrica di Nassirya, a permettere agli aquiloni di volare ancora ad Herat, a riaprire le scuole a Naquoura.
In sintesi, la generosità, i sacrifici ed il coraggio dei nostri soldati hanno contribuito senza ombra di dubbio a realizzare e mantenere la pace e la sicurezza nel mondo.

Mario Biscotti
(da Il Sidicino - Anno IX 2012 - n. 1 Gennaio)