L'ASSOCIAZIONE
 
il Sidicino
 
Indice per autore
 
Indice Carlo Antuono
 
 

Le Eresie Francescane (Fra Dolcino)

 

Parlando con un monaco francescano di un suo trasferimento in altro convento, appresi che tutto quello che si trasferiva insieme a lui non era altro che il suo saio. Sapevo dei secolari scontri fra l’Ordine Francescano e la Chiesa, peraltro ancora sopiti ai giorni nostri, sulla povertà o meno di Gesù e degli apostoli: la Chiesa non accettò mai di buon grado che San Francesco predicasse la povertà del suo ordine ed in genere della Chiesa tutta. Sapevo quanto il nostro Santo fu lungimirante nel cercare di tenere unito il suo scalpitante ordine all’interno dell’alveo della chiesa, da dove solo avrebbe potuto dialogare ed incidere per un ripensamento dei valori terreni che la Chiesa andava ormai senza più freni perseguendo. Sapevo ancora con quante polemiche e sacrifici si era giunti all’approvazione della Regola Francescana nel 1223 ad opera di papa Onorio II. Ma sulla veemenza con la quale questo scontro degenerò nel medio evo attraverso le cosiddette eresie (dottrina che si oppone ad una verità proposta dalla Chiesa cattolica) non mi ero mai confrontato più di tanto, una contrapposizione da lasciare esterrefatti.
Molto brevemente diremo che San Francesco predicava un ideale di povertà, di amore ed umiltà, ma già subito dopo la sua morte il suo ordine si era diviso in due filoni principali: i conventuali e gli spirituali. I primi avevano l’intento di operare una parziale mitigazione della regola di Francesco sulla povertà, i secondi osservavano alla lettera il testamento del Santo, volendo mantenere l’originale stile di vita basato sulla povertà e la rinuncia di ogni privilegio. Gli spirituali (detti anche “fraticelli”) di cui i maggiori esponenti di quel tempo furono il filosofo Guglielmo di Occam, Ubertino da Casale, Michele da Cesena e Marsilio da Padova, furono perseguitati dai loro stessi fratelli conventuali, infine scomunicati dal loro accanito nemico papa Giovanni XXII, molti di loro furono messi al rogo. Solo nel XVIII sec. essi ottennero il riconoscimento della Chiesa quale vero ordine di San. Francesco col nome, che ancora oggi detengono, di Frati Minori.
Ma torniamo al medio evo. Il contrasto tra la Curia Romana (che sosteneva la legittimità di possedere beni e ricchezze) e l’Ordine Francescano (che voleva affermare l’ortodossia sostanziale della povertà della Chiesa in obbedienza alla predicazione di Gesù Cristo, degli apostoli e del vangelo) raggiunse l’apice con papa Bonifacio VIII prima e Giovanni XXII poi , che con diverse bolle papali dichiararono eretica l’affermazione della povertà di Gesù e degli Apostoli (sic!).
Da allora in poi il dilagare delle eresie ed il pericolo di scismi non diede tregua alla Chiesa cattolica che represse con estrema truculenza ogni tentativo di disobbedienza per molti secoli. Ne fa da esempio l’energica campagna organizzata da papa Martino V nel ‘400 che portò ad una azione repressiva ed alla distruzione di 36 villaggi di fraticelli, (la quasi totalità passata per le armi) ed alla morte sul rogo per fra Francesco da Pistoia e molti predicatori a lui vicini.
Dal movimento dei fraticelli presero spunto molte altre eresie come quella degli “Apostolici”. Gli aderenti di questo movimento conducevano una vita segnata dalla preghiera, si sostentavano col lavoro e con le elemosine, la comunità non aveva imposizione di celibato. La cerimonia di accoglienza nel gruppo prevedeva che pubblicamente si mostrassero nudi davanti a Dio (come avrebbe fatto San Francesco). Predicavano l’obbedienza alle scritture, il diritto dei laici a predicare, l’imminenza del castigo celeste provocato dalla corruzione dei costumi ecclesiastici, e la necessità dell’assoluta povertà. Ispiratore di tale movimento fu Gherardo Segarelli che, spogliatosi di tutti i suoi beni predicò una vita di povertà e penitenza fino a quando pure lui finì sul rogo nel 1300.
Riprese la sua dottrina fra Dolcino da Novara, modificandone però alquanto decisamente gli insegnamenti, sostenendo che non bisognava attendere la venuta dell’Apocalisse passivamente, ma bisognava applicarsi attivamente in una trasformazione del mondo attraverso la lotta, anche violenta, ove si celavano potentati ed istituzioni corrotte. Ben presto, come si può capire, tale crociata sfociò in inimmaginabili violenze fra la Chiesa e questi frati. Al di là dell’aspetto religioso, bisogna considerare che a quei tempi una annata di carestia equivaleva ad infinite vite che si spegnevano cadendo d’inedia lungo le strade al freddo e al gelo, mentre come rimandano alcune cronache e detti popolari antichi, al clero “s’appennea a cullareccia e di rete re lardu crescea a ru cutulurciu”, ben lontano tutto ciò da una più equa distribuzione del “pane”.
Frate Dolcino da Novara nacque intorno al 1260, morì nel 1307: pare fosse figlio illegittimo del parroco di Prato Sesia nel Novarese; nel 1291 entrò a far parte del movimento degli “Apostolici”. In gioventù fu probabilmente francescano, sicuramente compì degli studi regolari con il grammatico vercellese Syon, mostrò sempre una certa cultura ed una buona conoscenza del latino e delle sacre scritture. Durante le sue predicazioni nei pressi del lago di Garda conobbe Margherita di Trento, figlia della contessa Oderica di Arco ed educanda in un convento, la fanciulla diventerà la compagna di fra Dolcino, descritta dalle cronache bellissima e terribile. Quando la lunga mano dell’inquisizione nei primi anni del ‘300 giunse fino in Trentino con il rogo di molti Apostolici, Dolcino decise, per organizzare meglio la difesa della sua comunità, di trasferirsi, con una epica marcia attraverso le montagne lombarde, in Val Sesia sua terra natia.
Qui le sua fila s’ingrossarono, grazie ai molti servi e contadini dei vescovi feudatari del luogo, fino a raggiungere migliaia di persone: incuriositi si unirono a loro anche diversi letterati provenienti da varie parti d’Italia come Bentivegna da Gubbio. In Val Sesia la vita in comune che fra Dolcino stava organizzando con i suoi fedeli non durò molto: ben presto, l’incalzare delle truppe del vescovo di Vercelli Raniero di Pezzana, che certo non poteva sopportare la nascita di tale comunità, costrinse il frate con i suoi a spostarsi e addentrarsi sempre di più verso le montagne, trovando riparo in Val Rassa. Qui il rigido inverno si sovrappose alla morsa dell’assedio delle truppe cattoliche che fu talmente cruenta (non si contavano i morti sgozzati e poi squartati da ambo le parti) che Margherita con inaspettato coraggio, decise lei stessa di guidare ciò che era rimasto del gruppo e sganciarsi dall’assedio attraverso montagne e passi innevati: con immani sacrifici giunsero alla nuova roccaforte, il monte Rubello nel Vercellese.
Questa setta cominciava a trovare adepti in altre parti della penisola, anche per il suo carattere sociale: si assisteva ad episodi estremi di bande di contadini che assalivano i granai delle chiese per sfamarsi ed impiccavano i chierici di ogni ordine e grado. Papa Clemente V decise dunque di farla finita e bandì una vera e propria crociata a cui risposero bande cattoliche anche dalla Francia: ben presto i Dolciniani furono assediati dalle ingenti forze clericali, resistettero per circa un anno ma poi, ridotti in condizioni disumane (mangiavano carne di topo e di cane e ci furono anche episodi di cannibalismo sui morti), nella settimana santa (23 marzo) del 1307 si arresero.
I superstiti furono tutti uccisi in loco, ma fra Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo, uno dei suoi luogotenenti, furono risparmiati, portati a Biella e condannati al rogo. Longino fu il primo ad essere arso; alcuni nobili in memoria dei natali di Margherita cercarono di salvarle la vita chiedendole di abiurare i suoi trascorsi Dolciniani di fronte al papa, altri chiesero di averla in moglie: lei sdegnosamente rifiutò, rimarcando e rinnovando i suoi voti per Dolcino e la sua fede.
Dolcino fu costretto ad assistere al rogo della sua compagna: mentre ardeva e si contorceva fra le fiamme, un cronista annota che egli “darà continuo conforto alla sua donna in modo dolcissimo e tenero”. La Chiesa volle che la fine di Dolcino fosse ancora più esemplare, così fu condotto a Vercelli e durante il percorso che lo portava al rogo gli vennero strappate le carni con le tenaglie roventi: durante queste atroci torture non si lamentò mai, eccetto quando si strinse nelle spalle all’amputazione del naso o quando sospirò profondamente al momento che si apprestarono a strappargli il pene e i testicoli. Lo arsero vivo davanti alla chiesa di S. Andrea il 1° giugno del 1307. In seguito i superstiti dolciniani furono ripetutamente ricercati ed eliminati, eppure ad oltre cent’anni dopo la tragica vicenda del Rubello venivano ancora segnalati suoi seguaci nel Trentino.
La vicenda di Dolcino durante i secoli non è sfuggita a storici e letterati; non sfuggì neanche a Dante Alighieri, suo contemporaneo: certo non lo porrà in paradiso né in purgatorio, lo relegherà nell’inferno fra coloro che seminarono scandali, sebbene non fosse ancora morto! Infatti Dolcino era ancora in vita quando Dante gli prediceva la venuta all’inferno per bocca di Maometto: “Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi,/Tu che forse vedrai lo sole in breve,/ S’ello non vuol qui tosto seguitarmi,/Si di vivanda, che stretta di neve/Non rechi la vittoria al Noarese, Ch’altrimenti acquistar non sarìa lieve” (Inf. C. XXVIII. vv. 55-60).
Ben conosceva Dante la vicenda di Dolcino che si consumava mentre lui scriveva la sua Commedia: il particolare delle nevi e della fame, causa delle sue sconfitte, era (si direbbe oggi) di “pubblica opinione”. Giovanni Villani il maggior cronista di quel tempo dirà “per difetto di vivanda, e per le nevi ch’erano, fu preso per gli Noaresi…”, e nella “Historia Fratris” del Segarizzi, “…da nessuno poteano essere vinti, e di nessuno aveano paura, purchè avessero da mangiare…”Nessuno può dire se lui traesse benefici nel predicare la lotta contro la proprietà altrui in nome della povertà, non annotò le sue vicende né forse ne ebbe il tempo, tutto ciò che è stato scritto sul suo conto ci perviene dalla parte avversa. In tempi moderni è stato riabilitato e nel luogo della sua ultima resistenza fu costruito un cippo commemorativo e la politica da più parti, come succede sempre in questi casi, ha cercato di attribuirsene i positivi valori ideologici considerandolo un “Apostolo del Gesù socialista”.
Posta in appendice, ci sembra opportuno fare un brevissima digressione sull’ossessione che si ebbe in quel tempo di una sempre imminente Apocalisse, di una visione del mondo dominata da un senso diffuso di catastrofi. La predicazione di Gesù fu portatrice, oltre che della buona novella, di un messaggio apocalittico: la venuta del “Padre” sulla terra a giudicare i vivi e i morti era presentato come un avvenimento prossimo. La Chiesa nel Medio Evo rimarcò e portò avanti per secoli con accenti ossessivi questi aspetti aggiungendovi la necessità della penitenza, unica difesa alla venuta dell’Anticristo. Per tutto il Medio Evo, ove pur si accesero luci meravigliose dalla religione all’arte, dalla letteratura alla stessa scienza, e alla non meno gioia di vivere che tanto si scorgeva presso le corti illuminate, aleggiò incontrastato quel cupo senso sui destini ultimi dell’umanità.

Carlo Antuono
(da Il Sidicino - Anno XIX 2022 - n. 4 Aprile)