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Il lirismo aristocratico di Salvatore di Giacomo

 

Il naturale lirismo di Salvatore Di Giacomo è difficile oltre che riduttivo inquadrarlo nel suo tempo, si rischia una falsa impostazione teorica della sua alta poesia. Risulta difficoltoso etichettare l’artista con l’appellativo di verista, di espressionista, di poeta arcadico, popolare o altro. Diciamo subito che egli non è un verista, in quanto il suo linguaggio ed i suoi contenuti non lo sono. Egli non affonda mai il bisturi nella realtà, non la fotografa e non la registra mai fedelmente. Il suo tono è, per così dire, sempre un po’ più su della materia trattata, se ne distacca sublimandola.
Il suo collega giornalista ed artista Ferdinando Russo riporta, non senza malizia, un aneddoto che è la prova di quanto detto. Dopo la prima di A San Francisco, al Teatro Nuovo, una persona si avvicina a don Ferdinando, un avanzo di galera che conosceva, e gli dice alludendo a Di Giacomo ed alla sua opera teatrale: - “Signò! Qua’ San Francisco! Chillo nun l’ha visto manco pittato!”. In sostanza Russo rimprovera a Di Giacomo la presunzione di voler affrontare un tema senza minimamente conoscere uomini e ambienti che a quel tema si riferiscono. E’ chiaro, diceva in sostanza don Ferdinando, che Salvatore Di Giacomo non ha mai messo piede in una prigione, né ha mai parlato con persone che conoscono usi e regole della vita carceraria.
Di Giacomo drammaturgo tenta una trasposizione da poesia a teatro ed il tentativo non è felice, ciò che vale per la poesia non vale per il teatro. La magia del teatro sta tutta nel sincretismo tra la realtà e la finzione, che è cosa ben diversa dall’emozione e l’astrazione poetica. Tuttavia la critica del tempo sarà molto favorevole verso S. Di Giacomo drammaturgo, e non poteva essere altrimenti avendo quale sponsor un filosofo e filologo quale Benedetto Croce suo mentore, lui lo aveva scoperto e Di Giacomo era il suo pupillo. Si deve, tuttavia, al grande filosofo l’apertura verso la totale libertà espressiva di Di Giacomo, e del dialetto in generale al mondo intellettuale. Apertura che con Pasolini si allargherà ulteriormente con la teorizzazione di una poetica che fa del dialetto un mezzo d’espressione più raffinato della lingua.
La natura poetica di Di Giacomo nasce da questa estraneità, da questo distacco solipsistico con la realtà circostante. Lo si vede non di rado anche nel suo lavoro di cronista per Il Pungolo prima e per il Corriere di Napoli poi, dove il materiale trattato perde di oggettività e diviene altro. Mettiamo accanto, per fare un esempio, la nota di cronaca intitolata allo spedale con il racconto Quella delle ciliegie, che dall’articolo giornalistico è tratto. E’ la storia di uno sfregio, la ferita deturpante che si infliggeva all’amata perché non fosse d’altri. Nel giornale la vittima è una lavandaia e nel racconto una prostituta, quasi che la cattiva condotta della donna potesse scagionare l’atto criminoso. Ma l’artista ha una libertà, si può obbiettare, che il giornalista non può avere, se non fosse che fin dalla nota di cronaca lo sfregiatore è un simpatico brunetto e tutto l’articolo, se lo si legge, tende a giustificare la sua oscena brutalità in modo insinuante.
Egli non si sente parte del popolo, ne subisce l’oscuro fascino ma il suo intellettualismo aristocratico se ne discosta perché non lo comprende. Quando nel 1898 a Napoli ci fu la rivolta contro il caro-pane e ci fu la strage ordinata da Umberto I contro il popolo, egli applaudì il comportamento dell’esercito che caricò ed uccise centinaia di uomini, donne e bambini.
Se la sua poesia non è verista meno che mai possiamo dire che essa è arcadica per l’assenza di un linguaggio che rifugge la povertà e semplicità degli arcadi e tanto meno la rude parlata dei quartieri storici di Napoli. I suoi versi, bellissimi, sono delle pennellate vivaci, veloci, impressioni sonore che evocano eterni fantasmi d’amore e di miseria, stemperate armonicamente in stati d’animo cui, però, lui non partecipa, perciò mai toccanti.
La meraviglia del poeta, la sua liricità non lascia spazio alla realtà, egli se ne ritrae: è per questo che non possiamo parlare di dialetto vernacolare della lingua digiacomiana. Per don Salvatore, possiamo parlare di dialetto colto/aristocratico, italianizzante dopo l’unità d’Italia. Riportiamo di seguito, a mo’ di esempio, qualche verso tratto da un’arietta ove egli s’immagina essere n’auciello freddigliuso che vuol trovare riparo in una nascente primavera che identifica nell’amata. Catarì!... Che buo’ cchiu?/ Ntiènneme, core mio!/ Marzo, tu ‘ossai, si tu/ e st’auciello songo io. In chiusura ci saremmo aspettati un – st’auciello songh’ì al posto di st’auciello songo io.
Egli sa bene che il vernacolo come espressione artistica è possibile solo se ad utilizzarlo è colui che lo adopera senza interferenze sovrastrutturali per così dire “borghesi”. Il suo è un diverso modo di maturare e di stennere li penziere, egli non tenta mai di avvicinarsi al popolo, lo prende solo come modello.
Anche quando l’elemento popolare entra a far parte della canzone digiacomiana che diventa canzonetta sia pure autonomamente bella e apprezzabile, l’elemento popolare non vi entra mai come ispirazione. Egli ne fa un gioco a ricalco attraverso la sua abilità di costruttore di versi su di una materia già esistente come è il caso de ‘E spingole francese. Canto, questo, popolaresco delle province meridionali, ripreso ed arricchito da Di Giacomo da maliziose parole di commento da parte del venditore ambulante, di ammiccamenti sottesi che qui per tempo e spazio non possiamo raffrontare con la versione popolaresca.
Altro equivoco che fa credere popolaresca la canzone digiacomiana nasce dal fatto che Di Giacomo scrisse molte canzonette per la festa di Piedigrotta come Nanni! Meh dimme ca si! Ma anche qui l’elemento popolaresco diventa un gioco per lui (forse anche per far soldi). Raffinato scrittore di teatro, di novelle e di ben altra poesia, perde l’aggancio con il popolo per ritrovare ancora una volta una dimensione borghese, la sua dimensione, quella aristocratica.
Solo con Viviani l’elemento popolare della canzone napoletana si ricollegherà alla sua antica matrice. Sono questi gli anni di Turati, Salvemini del suffragio universale. Anche Di Giacomo avverte i fermenti di questa epoca, ma non ne comprende le istanze, anzi, come abbiamo visto, le avversa.
Dove il lirismo di Di Giacomo raggiunge vette eccezionali è nella poesia/canzone. Il termine canzone, rispetto ad altri termini di poesia ha raggiunto col tempo, grazie all’intervento della musica, una sua particolare autonomia, allontanandosi dall’originale significato, per intenderci, della “canzone” degli stilnovisti, di Dante, di Petrarca, o di Carducci o di Leopardi. Oggi non vi sono autori di sonetti, ma poeti. Invece si dice: quel tale è un autore di canzoni.
La nobilitazione del termine e la sua evoluzione nel tempo, è avvenuta prima attraverso le ballate cantate dette canzoncine, e poi con quel particolare tipo di musica che era la romanza da camera. La canzone come la intendiamo oggi nacque nell’ottocento nei privati salotti da dove si diffuse nei caffè-concerto o cafè-chantant, che non era altro che una volgarizzazione delle arie dell’opera lirica. A Napoli autori come Di Giacomo, Bovio, Murolo, Tagliaferri, e musicisti come il Tosti, il Costa, il Denza ne elevano i contenuti e la qualità fino a far dire a molti critici che fu questo il periodo della nascita della canzone napoletana.
Confluiscono nella poesia e quindi nella canzone digiacomiana una serie di elementi facenti parte della sua cultura aristocratica per cui buona parte delle sue canzoni sono ben lontane da potersi dire canzonette. Anzi possiamo azzardare che, esse pur diverse nel metro e nello schema, le sue canzoni non sono lontane dalle canzoni del Petrarca o del Leopardi. Le strofe della sua poesia, indipendentemente dalla musica postavi, possono vivere di musica propria senza dover nulla invidiare in quanto a ispirazione e perfezione formale della canzone, al significato più nobile ed antico del termine. Le seguenti quartine di versi tratte da differenti componimenti ne sono un esempio lampante.
La poesia di Salvatore Di Giacomo non corrode, non irrita non riporta miserie: tutto fluisce in sentimentalismi. La lirica non è sfiorata da turbamenti erotici; la morte, la violenza, l’amore stesso non sono altro che vocalizzi dell’anima che egli avverte con olimpionico distacco, grazie ad una sua naturale bonarietà che colpisce e incanta chi lo ascolta o lo legge, ma non commuove. I paesaggi sono degli affreschi perfetti, i vicoli cupi Dint’all’oscurità affascinano ma non smarriscono. D’altro canto questo aspetto della sua natura poetica non passionale egli lo confesserà in un’intervista ad Elena Bagaloglu del Giornale d’Italia il 12 luglio del 1909. “… Forse non potevo amare l’amore e in verità sono giunto a sentire che, in fondo, io non amo veramente che l’arte, non si possono servire due padroni. …”. Ed è in questo l’universalità della canzone/poesia digiacomiana: essa è classicheggiante nobile, compiuta. Lo avvertiamo nelle sue ariette ove l’aggiunta della musica, come accennavamo, nulla rifonde alla originaria musicalità delle parole, anzi se ne crea un disagio perché rompe l’incantesimo dei versi.

Carlo Antuono
(da Il Sidicino - Anno XVIII 2021 - n. 5 Maggio)

Era de maggio e te cadeano zino
a schiocche a schiocche li ccerase rosse
resca era ll’aria e tutto lu ciardino
addurava de rose a ciente passe …

Dio, quanta stelle ncielo
Che luna! E c’aria doce!
Quanto na bella voce
Vurria sentì cantà!

Marzo nu pocu chiove
E n’ato ppoco stracque
Torna a chiovere, schiove,
ride ‘o sole cu ‘llacqua.

Guarda, guarda che luna lucente
ncopp'a ll'acque s'acala e se mmira,
e de st'acque, c'a teneno mente,
siente ‘a voce c'a chiamma e suspira …

Ma sulitario e lento
more ‘o mutivo antico,
se fa cchiu cupo ‘o vico
Dint'a ll'oscurità. …

Mo nu cielo celeste,
mo n'aria cupa e nera:
mo d'o vierno ‘e tempeste,
mo n'aria ‘e primavera. …