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Due soldi di speranza - Renato Castellani e la storia

teanese di Antonio Celentano
 

Renato Castellani, che aveva iniziato la sua avventura cinematografica accanto a Blasetti, Camerini, Soldati, prima di “Due soldi di speranza” aveva al suo attivo già alcuni film che lo avevano ben inquadrato nel panorama cinematografico italiano.
In periodo di Neorealismo, pur aderendo ad esso, ne aveva però colto solo alcuni aspetti, privilegiando un cinema che mirava essenzialmente ai temi della vitalità dei personaggi, della giovinezza, dell’ebbrezza e delle convulsioni dell’amore, che diverranno la sua cifra stilistica.
Due soldi di speranza, presentato a Cannes nel 1952, dove vinse, ex aequo con l'Otello di Orson Welles, il Gran Premio della giuria, e considerato da molti il suo capolavoro, ebbe subito grande risalto internazionale, divenendo punto di riferimento per alcuni registi della “nouvelle vague” francese, e favorevole accoglienza da parte del pubblico.
Diverso, però, in Italia fu l'impatto con la critica.
Il film, che inizialmente era stato positivamente giudicato, diede poi vita ad un dibattito serrato e vivace sul tradimento del neorealismo originario, e sul suo declino, con l'abbandono della narrazione e rappresentazione del sociale, dell'impegno civile e politico, con il privilegiare aspetti privati e intimistici, con toni leggeri e da commedia: “più sorridente, più accomodante, più manierato, bozzettistico”, come stigmatizzato da Alberto Moravia, che pure, inizialmente, lo aveva magnificato.
Con “Due soldi di speranza”, finisce il neorealismo e si dà inizio ad un nuovo genere, che di lì a poco sarà conosciuto come “neorealismo rosa”, termine che compare per la prima volta nel '55 in un saggio di Tullio Kezich, in un'accezione chiaramente negativa, e che caratterizzerà, divenendone la forza trainante, il cinema italiano degli anni '50 e degli inizi del decennio successivo; con film di enorme successo di registi come Luigi Comencini che, con la serie inaugurata da “Pane amore e Fantasia”, ne traccerà le successive coordinate.
Influenzando anche i registi maggiori della “commedia all'italiana”, con tematiche che sfiorando solo le questioni sociali, conservano però, in parte, alcuni canoni del neorealismo, con ambientazioni autentiche, paesane, rurali, stile documentaristico e uso di attori non professionisti.
In un'Italia che cominciava a risollevarsi dai traumi e dalle devastazioni belliche, che stava pian piano affrancandosi dalle drammatiche condizioni di povertà e miseria, passando da una società agricola a una industriale, che la porterà al boom economico degli anni '60 e ad una condizione di benessere sociale e economico, questo genere di cinema, abbandonando i toni tragici e angosciosi del neorealismo per narrazioni più spensierate e consolatorie, assecondando gli umori generali del paese, ne diventa lo specchio fedele, quello in cui lo spettatore si riflette e si compiace.
Strutturando quello che con la “commedia all'italiana” diverrà cinema popolare, cinema medio, che, pur aderendo ai gusti del pubblico, riesce a mantenere viva un' aspirazione artistico culturale, con una produzione qualitativamente dignitosa, di grande maestria, e punte d'eccellenza, ponendosi tra quello autorale, d'arte, dei nostri grandi registi, e quello commerciale, di massa,
Due soldi di speranza, nato dall'incontro tra Castellani e un giovane militare teanese, Antonio Celentano, narra le vicissitudini di una giovane coppia di innamorati, in un paesino meridionale alle falde del Vesuvio, Boscotrecase nel film, ma idealmente Teano, chiaramente evocata con le immagini della chiesa (l'Annunziata) e i giovani seduti sui gradini e appoggiati all'inferriata, in continuo conversare in attesa di qualcosa di indefinito, con la salita della stazione, la fabbrica pirotecnica.
Lui, Antonio Catalano, dopo il congedo militare, alla continua ricerca di un lavoro si destreggia tra mille mestieri, senza darsi mai per vinto, senza mai rassegnarsi, in antitesi alla figura stereotipata del meridionale, per coronare il suo sogno d'amore con la bella Carmela, interpretata da una giovanissima e bravissima Maria Fiore, che diverrà poi una grande attrice, il cui genitore non vuole che la sposi perché povero e senza alcuna posizione.
Il film con grazia e freschezza, ritmo e grande padronanza registica, tratteggia con leggerezza un contesto sociale povero e arretrato, non ancora sfiorato dal benessere, inquadrando e unendo coralmente i due protagonisti all'interno di una realtà contadina guardata con occhio critico ma benevolo e partecipe.
Antonio Celentano che si era trasferito da Teano a Roma, chiamatovi da Castellano che stava predisponendo un adeguata sceneggiatura dal soggetto tratto dalla sua storia personale, di cui aveva appuntato le fasi salienti nell'incontro avuto a Napoli, vi rimase divenendo in seguito il suo autista, l'accompagnatore e il giardiniere tuttofare della sua villa a Grottaferrata.
L'incontro tra i due e la genesi di “Due soldi di speranza”, sono stati rievocati da Renato Castellano in un'intervista del novembre 1983, poi riportata nel libro :Quattro soggetti, edito a cura dell'Ente dello Spettacolo Editore, che di seguito riproponiamo.

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“I film si legano un po' l'uno all'altro, così come cercando il protagonista di Sotto il sole di Roma avevo trovato colui che sarebbe stato il protagonista di E' primavera, nello stesso modo cercando il protagonista di E' primavera trovai la persona che mi raccontò in gran parte i fatti di Due soldi di speranza. Per E' primavera, volevo un vero soldato. Avevo chiesto autorizzazione a visitare le caserme: fui aiutato e favorito in ogni modo, cosa che oggi non sarebbe neanche pensabile.
Non trovai tra i soldati il protagonista di E' primavera, ma conobbi un napoletano della vera "Campania felix": un personaggio incredibile di nome Antonio. Faceva il carrista a Pietralata. La seconda volta che lo vidi gli parlai. Al mio "Come va?" rispose con una frase singolare: ''Ce mantenimme". Lì per lì non detti all'espressione una particolare importanza ma poi, ripensandoci, mi resi conto che sintetizzava una filosofia, un modo di vivere: quello di una persona il cui ideale è di mantenersi, cioè di sopravvivere; ma di sopravvivere non in modo angosciosamente drammatico e un po' tenebroso come cerca di sopravvivere, per esempio, il protagonista di Ladri di biciclette. In modo, viceversa, italiano, leggero, alla ricerca di tutte le possibili pendenze dove l'acqua possa scorrere con maggior facilità.
Quel giovanotto cominciò a raccontarmi la sua storia le sue avventure. Ed io, che ho sempre avuto abitudine di prendere appunti per il mio lavoro, scrivevo ogni cosa su un taccuino. In quegli appunti c'era di tutto: Antonio, il suo ambiente, il paese, la gente.
Nel frattempo Ghenzi, con il quale ero sempre sotto contratto, aveva voluto che preparassi un Otello. Voleva che affrontassi un testo shakespeariano (tanto è vero che poi mi avrebbe fatto fare Giulietta e Romeo). Vinta una certa mia perplessità, mi ero messo a lavorare all'Otello, scrivendone un lungo trattamento insieme con Suso Cecchi d'Amico. Ma nello stesso periodo anche Orson Welles stava preparando un Otello; per cui un produttore americano, William Zekely, venne a parlarmi per dissuadermi dal portar avanti il progetto di Otello, onde evitare doppioni. Io non chiedevo di meglio.
Mi tornarono allora tra le mani gli appunti presi nei colloqui con Antonio, che avevo messo da parte, in attesa che l'idea maturasse. Maturò d'improvviso, in una lunga giornata trascorsa negli scavi di Pompei. Era ormai mezzogiorno, passeggiavo tutto solo senza guida nella città deserta, vuota anche di turisti. Quella caratteristica vicinanza tra la vita e la morte, così propria del Sud; la provvisorietà di un'esistenza ai piedi di un vulcano, e malgrado tutto la pienezza di vita che si ritrova nelle pagine “picaresche” del Satyricon; il ricordo dei romanzi picareschi spagnoli (troppo tetri, però), dove il sopravvivere è una continua scommessa contro la fame (il Gil Blas è meno tetro); e la Campania felice; cose vecchie e vive ancora oggi: ecco trovata la chiave che unificava quegli aneddoti sparsi. (Per questo, istintivamente, il film non fu girato nelle campagne del casertano, ma in uno di quei paesi alle falde del Vesuvio a due passi da Boscoreale, dove fu trovato il tesoro dei pompeiani fuggiaschi: fu girato a Boscotrecase).
Mi dedicai subito, con rapidità, alla stesura del soggetto, quando fu portato a termine, lo feci pervenire a Ghenzi, che allora si trovava a Ischia per la cura dei fanghi. Ghenzi era persona piena d'ironia, e mi rispose con un telegramma così formulato: “Lo faccia”. Otello fu dimenticato e cominciai a lavorare attorno a Due soldi di speranza. Passare dal soggetto alla sceneggiatura fu difficile. Era difficile ricreare l'estrosa freschezza che aveva il personaggio. Ghenzi mi disse: "Chiami Antonio". Chiamammo Antonio, che da tempo non faceva più il soldato. Era tornato al suo paese, a Teano, si era sposato ed aveva già avuto un figlio. Lo invitammo a venire a Roma. Antonio, eterno disoccupato, si aggrappò subito a questa opportunità e venne a Roma di corsa. Fu per lui un periodo curioso. Abitava in una stanza d'affitto in Via Angelo Brunetti, vicino all'ufficio di Ghenzi che si trovava in via Principessa Clotilde. Ogni mattina prendeva il tram e veniva da me dove c'era un'amica che stenografava. Gli spiegavo più o meno qual era la scena e lui cominciava a raccontarla, a viverla. Passeggiava per la stanza improvvisando i dialoghi. La stenografa scriveva a grande velocità e ogni tanto si interrompeva perché non riusciva a trattenere le risate. Nacque così la sceneggiatura: ci vollero setto-otto mesi.
Quando Ghenzi la lesse, scritta com'era in dialetto teanese, disse: “E' bellissima, ma nessuno capirà niente”. Il teanese infatti è un dialetto incomprensibile pieno di spagnolismi. Per esempio, “guardando” si dice “trementendo” e “mucchio” si dice “montone”, "bara" si dice "taud''. Pazientemente ritradussi tutto in italiano. Tornai da Ghenzi “Ha perso tutto il profumo, non sa più di niente”, mi disse. Poi lo stesso Ghenzi ebbe l'idea risolutiva. Andammo da Titina De Filippo, che con grande pazienza rilesse ad alta voce tutta la sceneggiatura recitandola e ricreandola nel napoletano dei De Filippo, che è napoletano, ma si capisce da Milano a Siracusa. Scrissi questo dialogo a gran velocità e così nacque Due soldi di speranza”.

Martino Amendola
(da Il Sidicino - Anno XIV 2017 - n. 2 Febbraio)