TEANO
 
Tradizioni
 
Proverbi
 
Pillole di saggezza in antico vernacolo
 
(Alcuni additti del nostro contado)
 

Penso che tanta ricchezza d'esperienza, di saggezza, a volte di poesia, che ancora, raramente, si riscopre nel dialetto d'uso domestico, si stia sacrificando in nome di una massificazione ormai dilagante che inaridisce ogni locale identità culturale.
Le poche testimonianze che qui riporto sono state raccolte in un ambito molto ristretto: gli ameni casali che si adagiano sulle colline a Sud-Ovest di Teano fino a Caianello.
Pur non essendo questa la sede per uno studio etimologico, faccio solo notare, a titolo di curiosità le diverse sfumature di linguaggio che si colgono pur in un ambito così ristretto di uno stesso territorio: l'articolo determinativo il e lo assume, da un casale ad un altro, diversa forma: u, lu, ru; se solo ci si sposta ad Est di Teano: ai confini del comune di Riardo lo stesso articolo diventa gliu. Tutto ciò naturalmente si ripropone in tutto il territorio nazionale. Le ragioni storiche sono sotto gli occhi di tutti: le divisioni territoriali e i diversi avvicendamenti politici e culturali di molti stati europei che per secoli hanno interessato l'Italia apportando cambiamenti sostanziali in ogni campo.
Col senno di poi possiamo, oggi, dire che forse tutti questi avvicendamenti culturali in fondo hanno arricchito con diverse peculiarità artistiche tutto il nostro territorio. Tutti i dialetti hanno la caratteristica di poter meglio rappresentare la realtà, ma la ricchezza di sfumature per comunicare particolari situazioni, uno stesso sentimento, le funzioni di uno stesso oggetto, nel nostro vernacolo, pur nella comunanza di lingue neolatine, sono uniche nei confronti di altri Paesi. Prendiamo ad esempio un verso di una stupenda serenata d'amore: “Quannu cammini la terra sculluzzi” tradotto in lingua dovremmo dire: “sciogli la terra ove passi quanto sei bella!” così facendo non abbiamo reso il senso di “sculluzzare”: esso si riferisce all'idea di “roce” si scioglie perché alla vista del bello/desiderato, l'oggetto/soggetto si addolcisce a tal punto che si scullozza: e cola come il miele.
I proverbi in stretto vernacolo locale venivano chiamati “Additti” non si può che non restare meravigliati di come siano pregni di una pratica filosofia di vita, a volte estrema, che ridicolizza e drammatizza ma sempre a scopo di evidenziarne il pratico insegnamento di vita. Questo proverbio ne è l'esempio lampante: muonaci prieuti e cani sempe c' 'a pirocca 'nmani, l'esagerazione è evidente, ma se ne comprende il senso ed il messaggio di questo additto se si pensa alle costanti e persistenti questue dei tempi passati soprattutto da parte dei monaci che di quello si sostentavano aiutando anche i numerosi diseredati; se si considerano i preti invadenti nelle questioni familiari, un tempo negli archivi delle sacrestie non erano annotate solo le morti, le nascite, ed i matrimoni, ma vi era una vera e propria anagrafe di tutto il contado con annotazioni personali di ogni genere dei parrocchiani; infine i cani, perennemente affamati, bisognava scacciarli in continuazione.
Il primo proverbio ha il sapore di una favola esopica: del garzone così perspicace che manderà il proprio padrone a dormire nel proprio pagliaio mentre lui ne prenderà il posto di comando. La realtà è che un garzone lavorava solo per le spese cioè per mangiare e dormire spesso in un pagliaio: se qualche massaro prendeva qualche ragazzo a guarzone faceva un grosso favore ad una numerosa famiglia che avrebbe così avuto una bocca in meno da sfamare.
Un marito anche se scrucchetiegliu (misero) era comunque preferibile ad un principe amante: qui, in questo secondo proverbio, entra in gioco la condizione della donna che praticamente acquistava uno status sociale solo con un agognato matrimonio. Con un marito riconosciuto dalle istituzioni, e soprattutto dalla Chiesa, assumeva ruolo nella famiglia ed aveva voce nella società, ma soprattutto aveva un sostentamento assicurato, miserando che fosse il marito comunque si sarebbe rotto la schiena tutti i giorni per portare un pezzo di pane a casa. Acquisito un ruolo, l'amante poteva riempire le sue fantasie, ma sempre nell'ombra e mai che scalfisse la sacralità del matrimonio agli occhi del mondo.
Essenziale ed ermetico il terzo proverbio: è bene possedere abitazioni per quanto basti, ma i terreni possa tu possederli a perdita d'occhio. Perenne e duraturo come la terra non v'è bene che vi si possa paragonare, neanche le abitazioni le più fortificate. La quarta strofa amaramente canzonatoria nei confronti delle avversità atmosferiche che possono mettere in difficoltà le entrate giornaliere di un operaio che lavorava a giornate, come era normale fare in passato, ma, evidentemente, in un momento di scoramento verso il tempo che inclemente non gli permette di lavorare, sogna di essere pagato mensilmente a prescindere dalle giornate che effettivamente lavora o addirittura annualmente. Così con ironia e rabbia rivolgendosi all'inclemenza atmosferica: “…piovi …piovi puoi anche diluviare tanto io vengo pagato mensilmente, anzi, ci ripensa, e dimenticando di essere nient'altro che opera a juornata, vengo pagato annualmente. C'è grande differenza della considerazione che si aveva della donna nella poesia e nelle canzoni cavalleresche, siciliane o del dolce stil novo ove la donna era vista …quale angelo venuto in terra a miracol mostrare, da quella prettamente popolare ove essa non era tenuta così da conto. Era messa in luce la sua arte difensiva che certo durante i secoli aveva ben affinato proprio perché trovandosi in uno stato d'inferiorità sviluppava difese alternative: le pronte risposte per togliersi d'impaccio, l'affabulazione, l'inganno, la supposta simpatia per il diavolo e la sua conclamata tendenza al meretricio, a tal proposito questo additto ne è l'esempio: “se tentata na bona femmena rest'unesta è pecchè ne stata bona tentata”.
L'ultimo ritornello è l'atavico interrogativo dell'uomo “Chi sa se all'altro mondo ci si vede” perciò “mangiamo e beviamo finché resta olio che dà luce alla lucerna, chi sa se all'altro mondo c'è taverna” il ritornello cantato in un'osteria quando si è alzati un po' il gomito e mentre l'olio della lucerna (anche metaforicamente) è alla fine, l'interrogativo diventa insieme amaro, malinconico e senza risposta.

I
Si ru patrone sai servì
'mpagliaru ru fai murì.
Si ru patrone nun sai servì
'mpagliaru vai a murì.

II
E' meglio nu maritu scrucchetiegliu
Che 'n amante 'mperatore.

III
Casi quantu capi
e tierri quantu viri.

IV
Ciuovi ciuovi ca stong'a mese:
mangiu vevu e sciccu spese.
Ciuovi ciuovi ca stong'a annu:
Mangiu vevu e stracciu pannu.

V
A femmena pe gli 'ome 'mpazzisce
gli 'ome pa femmena se 'nfessisce.
Femmena 'ncannaccata, maritu 'guaiatu.
Fa prim'a femmena a truà na scusa
che nu soce nu pertus'.
Chi a femmena crere
paravisu nun vere.
Femmene e tele n’ accattà mai re sera.
Quann'a femmena truculea
trova sempe chi sa suscea.
A femmena senza piettu
è nu stipu senza piatti.
L'amore fa passà u tiempu
‘u tiempo fa passa’ l’amore.

VI
Mangiammu e bevemmo
fin ca sta uogliu alla lucerna,
ca chi sa si agli 'atu munno ce veremmu
chi sa se agli 'atu munnu c’è taverna.

Carlo Antuono
(da Il Sidicino - Anno VI 2009 - n. 8 Agosto)