Era il 1961 quando Paolo Cristiano pubblicò, presso Rebellato di Padova, la sua prima raccolta poetica “Non redime saperlo”, da allora tante altre si sono succedute, accompagnate dalla stima e dalla considerazione di Papini, Libero De Libero, Sinisgalli, Pomilio, fino a “Le piaghe di Giobbe” del 2005, e all’ultima “Postille” del 2009.
In questo lungo arco di tempo, tante sono state le vicende e le situazioni che lo hanno interessato e coinvolto, tanti i cambiamenti, gli sconvolgimenti che hanno interessato il nostro paese.
L’Italia del 1961 era ancora un paese in fase di ricostruzione. Le ferite della guerra erano ancora presenti, sebbene la volontà di rinascita e gli sviluppi politici internazionali, con gli accordi economici in atto, stavano creando le condizioni del boom economico che interessò l’Italia in quel decennio.
Dopo, vennero gli anni della contestazione studentesca del “68”, il movimento del”77” e gli anni di piombo. Si passò dall’impegno quotidiano e collettivo, al disimpegno e al rifugiarsi nel privato, vennero gli anni del craxismo e del rampantismo sociale degli yuppies, del consumismo, fino al crollo del sistema dei partiti e della prima Repubblica, con le inchieste di “Mani pulite”. Poi, la “telecrazia”, il berlusconismo, l’ideologia dell’apparire, lo sgretolamento della Costituzione, lo svuotamento dei valori e l’abbattimento delle regole, che condizionano pesantemente il nostro grigio quotidiano.
Paolo Cristiano ha attraversato tutti questi anni, questi fenomeni, portando incessantemente avanti la sua ricerca, il suo percorso artistico, poetico e insieme pittorico, le due linee di sviluppo del suo “pensiero poetante”, rimanendo sempre fedele alla sua personale poetica. Poetica, intrisa di tensione morale, impegno politico, passioni civili, pervasa di lievità e disincanto, di ironica malinconia, esplicitata con verso asciutto, musicale, evocatore.
Dove predominano gli stati d’animo, le atmosfere, le emozioni, le passioni, i ricordi, dove ritornano prepotentemente alla mente i luoghi dell’anima, amati, sognati, continuamente vagheggiati. Da questo nostoi, questo continuo ritorno, emerge, si staglia, la sua Teano, la città natale, culla della sua giovinezza, presto abbandonata, con ancora presenti le devastazioni della guerra, perché le esigenze lavorative portavano lontano.
Ritorna viva e vitale, con la sua lussureggiante vegetazione, “i suoi colori, i suoi sapori, la sua gente, la sua acqua di perfetta leggerezza, il suo pane rotondo, i suoi caci dalla forma e dal colore della luna, i suoi abitanti, più o meno matti, estrosi, disponibili, pezzenti e gran signori”.
Riemergono i giovani monelli, le fanciulle, i vigili padri e le prospere madri, risplende la città, quella prima del conflitto: “scomparsa forse ma non dimenticata”, l’amata Teano, “paese d’accecanti aurore trasparenti/e meriggi distesi in dissolvenze” ricca di “mari d’erbe e d’onde spumose lusinghe/a naviganti e a chi di ritorni/non è stanco mai”.
Martino Amendola
(da Il Sidicino - Anno VI 2009 - n. 10 Ottobre) |