Mercoledì 26 agosto 1648, Papone, collocato su un carro, malfermo su di una sedia a causa delle torture subite, scortato da numerosi soldati, uscì dalla prigione di San Giacomo per dirigersi nella vicina Piazza del Mercato, luogo di esecuzione della sentenza. Dinanzi al carro marciava un banditore che, munito di tamburo e di tromba, si rivolgeva all'ingente folla raccolta sulla via, gridando tali precise parole: Questa giustizia la manda il Signore Auditore Generale dell'Esercito D. Giovanni Herrera Delegato per S. E. Questo è Domenico Colessa, alias Papone; si arrota e si squarta come inquisito de crimine laesae mayestatis in primo capite, essendo andato a Roma dopo le grazie generali di S. A. Serenissima il signor Don Giovanni d'Austria, e negoziato coll'Ambasciator di Francia di suscitare nove rivoluzioni in questo regno in beneficio del Re di Francia avendo ricevuto da detto Ambasciatore due patenti di Colonnello ed altre di Capitano di Cavalli, coi nomi in bianco a disposizione di esso Papone.
Dopo breve tragitto il corteo giunse nella Piazza del Mercato. Qui al cospetto di una folla ammutolita, la sentenza fu immediatamente eseguita. Il cadavere di Papone rimase esposto al pubblico per due giorni interi: successivamente il corpo fu deposto e sottoposto alla operazione dello squarto. E così il capo fu condotto nella città di Sora, luogo delle sue prime scorribande, mentre le restanti membra furono appese a Caprile e nei paesi vicini e lì restarono per parecchio tempo a testimoniare con la loro lugubre e macabra presenza, quale fosse la fine riservata a tutti coloro che, come Papone, cullando sogni ambizioni e irrealizzabili, si arrogano il diritto di comandare popoli e di sottomettere terre, sostituendosi alla legittima autorità ed incuranti della sua inevitabile reazione e repressione.
La morte di Papone, preceduta da quella di Gennaro Annese, capo del rivoluzionario popolo napoletano, sancì la fine della effimera esistenza della “Serenissima Repubblica Napoletana” detta anche “Repubblica Paponiana” proprio in ossequio al ruolo non secondario che il nostro ebbe a svolgervi.
Papone era nato a Caprile, piccola contrada di Roccasecca, nell'alta Terra di Lavoro, nel settembre del 1607. Da giovane era stato pastore e guardiano di capre, forse per conto dell'abbazia di Montecassino che in loco possedeva terre e uliveti. Poi si arruolò nella gendarmeria pontificia: Roccasecca, infatti, si trovava ad un tiro di schioppo dal confine tra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, la cui linea di demarcazione, la più longeva del continente europeo, era segnata, grosso modo, dal corso del fiume Liri. Nel 1646, improvvisamente, fu arrestato e rinchiuso nelle carceri di Santa Maria di Agnone, a Napoli, con l'accusa di aver razziato, assieme ad altri ribaldi, nelle campagne della valle del Liri. La sua prigionia, però, fu di breve durata: il 7 luglio del 1647, profittando della rivolta di Masaniello, fuggì dal carcere e si diede alla macchia. Iniziò da questo momento la “carriera brigantesca” di Papone che per più di un anno caratterizzò in maniera indelebile la vita di molti paesi del Lazio meridionale e del Casertano. Il ricordo delle sue “gesta” restò impresso a lungo nelle popolazioni di Terra di Lavoro che facevano fatica a dimenticare cotanto personaggio. Il canonico Gabriele Cotugno, che componeva le sue Memorie Storiche di Venafro nel 1824, quasi due secoli dopo da quegli eventi, riferiva che le donne di quel paese erano solite fare il nome di Papone per acchetare i fanciulli recalcitranti che non volevano prendere sonno. Ciò a dimostrazione di quanto il Colessa seppe fare in quelle contrade.
Sul declinare del 1647, unitosi all'itrano Giuseppe Arezzo e radunata una turba di qualche centinaio di uomini, Papone vagava indisturbato in una vasta zona di territorio compresa tra gli Abruzzi e il golfo di Gaeta. Riuscì persino ad occupare, quasi senza colpo ferire, città quali Sora e San Germano (l'odierna Cassino), impadronendosi, di fatto, di tutto il basso Lazio. Imbaldanzito dai ripetuti successi Papone, che si era nominato Generale della Serenissima Repubblica Napoletana, dopo essersi impossessato di Sessa (dove pose il suo quartier generale), Roccamonfina e Calvi, decise di muovere all'assalto di Teano, l'ultimo ostacolo in direzione di Capua e di Napoli. La latitanza delle truppe regie che tardavano a contrastare l'avanzata dei “fuorusciti”, autorizzava Papone e i suoi accoliti a vagheggiare obiettivi sempre più ambiziosi. Di fronte alle solide mura di cinta di Teano, però, l'offensiva subì un inaspettato arresto.
Il governatore della città, don Ottavio Del Pezzo, uomo intrepido e di valore, era deciso a resistere a tutti i costi e a non consegnare Teano ai briganti. Radunati 800 uomini e armati persino i sacerdoti, formò quattro compagnie e le affidò al comando dei migliori esponenti della nobiltà teanese. Don Giuseppe Galluccio fu posto a difesa della Porta del Vescovado; don Luigi Martino de Carles fu chiamato a presidiare la Porta Superiore; don Bartolomeo d'Angelo proteggeva la Porta della Rua e, infine, don Giulio Barattucci venne collocato alla Porta di S. Maria la Nova, sull'altura della Palombara. Dopo qualche scaramuccia tra i briganti, in evidente superiorità numerica, e gli assediati rintanati al riparo delle possenti mura di cinta, l'assedio vero e proprio iniziò il 5 gennaio del 1648. Invano Papone aveva intimato la resa al governatore, inviando come ambasciatore un frate del convento dei Padri Cappuccini situato sul colle di S. Reparata. Don Ottavio rifiutò sdegnosamente la proposta e dispose i suoi uomini a rintuzzare l'assalto che ebbe luogo il 7 gennaio, preceduto dall'incendio appiccato alle chiese extra urbane di S. Antonio Abate e di S. Biagio. I teanesi furono eroici nel difendere la loro città ma, ciò malgrado, i paponisti stavano per avere la meglio ed erano sul punto di scavalcare la cinta muraria e di entrare nel cuore del borgo. All'improvviso, però, intervenne uno squadrone di cavalieri regi che si gettò con impeto sugli assedianti. Papone e i suoi si trovarono ben presto a mal partito dovendo fronteggiare anche una sortita dei difensori che, dalla Porta della Rua e da quella di Santa Maria la Nova, si erano catapultati nella mischia.
Nella zuffa molti briganti furono uccisi, numerosi altri rimasero feriti e caddero prigionieri delle forze realiste. La partita, però, era ancora tutta da giocare perché Papone, con il grosso della masnada, era riuscito a sfuggire all'accerchiamento, ripiegando sulla fedele Sessa. Alla metà del mese, rimpinguato il variegato esercito con un corposo arruolamento nei paesi limitrofi (1), tornò ad affacciarsi sulle alture di Teano, trincerandosi con una parte dei suoi nel convento dei Cappuccini. La mattina del 16 i briganti mossero all'attacco con urla spaventose e suoni assordanti di trombe e di tamburi. I difensori non riuscirono ad arrestarne l'impeto e furono costretti a ripiegare mentre gli assalitori si insediarono nell'orto sottostante il palazzo vescovile, dove restarono per tutta la notte. La mattina seguente il governatore Del Pezzo che, nel frattempo, aveva ricevuto rinforzi dalla coalizione baronale, ordinò ad una compagnia di cavalieri croati e di moschettieri di scacciare i briganti dal loro rifugio. Nello scontro, breve ma violento, i soldati regi ebbero la meglio. Lo stesso Papone restò ferito ad una coscia da una archibugiata (2). Dopo un tentativo non riuscito di barricarsi nell'Osteria della Fontana, un fabbricato situato nei pressi della Porta Superiore, i briganti furono costretti ad indietreggiare, lasciando sul campo morti, feriti, munizioni e cavalli. In rapida successione i paponisti furono scacciati anche dalle alture circostanti e dal convento dei Cappuccini (3).
Papone aveva riportato una dura e decisiva sconfitta. Da questo momento la sua stella iniziò rapidamente a spegnersi. Dopo altri insuccessi patiti a San Germano e a San Giovanni Incarico, nell'agosto del 1648 fu catturato a Rieti dal colonnello Ercole Visconti. Condotto a Napoli fu imprigionato, torturato, processato e giustiziato, come già si è detto.
Torniamo ora a quell'inizio di 1648, con la cittadinanza teanese in festa per la brillante vittoria riportata e per lo scampato pericolo. Il 18 gennaio il principe di Roccaromana, che aveva guidato le truppe regie, spediva al comandante don Luigi Poderico la seguente lettera (4):
“Sto quasi morto di stracchezza per aversi peleato (=combattuto) otto ore dalle 14 sino alle 22 e per Grazia di Dio, e della SS. Annunziata mia Avvocata, si è data al nemico una rotta campale, con lo acquisto di 50 cavalli e prigionia di 100 e più di loro, che ancora non sono contati tutti, morti infiniti, con acquisto di tutte le munizioni loro e bagaglie, scacciandoli dalli Conventi, posti e fortificazioni e fuga di Papone e compagni alla disperata, me ne rallegro con Vostra Eccellenza, quanto devo e posso, essendo risultato il tutto dal suo amparo (=protezione). Delli nostri è morto l'alfiere spagnolo e tre soldati e due feriti. Signore tutti hanno mostrato gran valore, essendo arrivati sotto le mura degli edifizi, dove si erano fortificati i nemici ad attaccare fuoco alle porte a petto scoperto. Il Sergente Miguel Garzia Lares merita la piazza dell'alfiere morto, ed io ce l'ho promessa: facci compirlo. Degli altri non so distinguere, perché hanno fatto a gara di essere il primo a segnalarsi ed io ho fatto il manco di tutto. V. E. perdoni se io sono breve, che scrivo entro una spezieria, e digiuno da 24 ore: appresso questa sera Le scriverò più distinto per gli ordini necessari; ed a V. E. bacio le mani; e quanto desiderava e ha comandato tutto si è fatto”.
Ma se le truppe regie avevano compiuto fino in fondo il loro dovere, non da meno erano state le milizie cittadine le quali avevano dovuto sostenere a lungo il peso di un assedio che stava diventando sempre più pressante. Per questo, terminate le ostilità, tutti riconobbero l'ardimento dei teanesi che non erano certo dei militari di professione. A testimonianza di ciò un “attestato di servizio” (5) che qualche tempo dopo il governatore Ottavio Del Pezzo rilasciò a don Bartolomeo d'Angelo, uno dei comandanti delle quattro compagnie cittadine:
OCTAVIO DEL PEZZO
TENENTE DI MASTRO DI CAMPO GENERALE
GOVERNATORE DELLE ARMI DELLA PIAZZA DI THEANO
Il Sig. D. Bartolomeo D'Angelo Capitano di una delle quattro compagnie formate de' cittadini di questa fedelissima città di Theano have esercitato detto carico 5 mesi continui et al preaente tutta via l'exercita con quel valore, fedeltà e diligenza che si conviene ad ogni vecchio e buon soldato, atteso non solo, è stato diligentissimo in disciplinare detti soldati cittadini, vigilantissimo nelle continue guardi che, in detto tempo si sono fatte, e con molta attenzione nelle fortificazioni che sono state necessarie a questa piazza, e nelle occasioni delli due assedi postici da bandito Papone, e suoi seguaci ribelli al numero di ottomila e più persone, il detto Capitano è stato continuamente colle armi in mano di giorno, e di notte in animare detti suoi soldati con le parole, e con le opere ha voler spandere tutto il loro sangue per mantenere la fedeltà a S. M. (che Dio guardi), essendo stato il suo ordinario posto in una delle porte più pericolose, da dove si sono fatte tutte le sortite, e vi sono successi più fatti d'arme, nelle quali esso si è portato sempre con molto valore, che però lo stimo degno d'ogni onore, e mercede che Sua Altezza Serenissima, e l'Eccellenza del Conte Mio Signore si degnasse farle. Che per fede di ciò li ho fatto la presente sottoscritta di nostra propria mano, e signata del nostro suggello. Thiano 11 aprile 1648. Octavio del Pezzo”.
Per festeggiare la vittoria furono organizzati imponenti celebrazioni. Nella cattedrale si intonò un solenne Te Deum mentre gli squadroni militari schierati nella piazza salutavano con scariche di moschetto replicate più volte. Per le principali vie della città si snodò una processione di ringraziamento, con le reliquie di S. Paride, di S. Reparata e di S. Terenziano, i protettori di Teano. Vennero, inoltre, tributati grandi onori ai capitani regi che con il loro provvidenziale intervento avevano concorso a sconfiggere Papone. Nel 1649 mons. Muzio De Rosis, vescovo di Teano, fece erigere nella cripta della Cattedrale una lapide marmorea a ricordo della vittoria riportata sui briganti. Questo il testo:
D.O.M.
DIVO PARIDI TUTELARI SUO
SOSPITATORIQUE PIENTISSIMO
OB VINDICATAM AB HOSTIUM OBSIDIONE URBEM
PARTAMQUE VICTORIAM
ORDO POPULUSQUE THEANENSIS
TANTI BENEFICI MEMOR
POSTERO ANNO DICAVIT EXUVIAS
HONORIS ET REVERENTIAE PIGNUS
ANNO A PARTU VIRGINIS
MDCXLIX (6)
Una quindicina di anni fa, dopo una ricognizione nella cattedrale teanese, constatai che dell'antica iscrizione rimaneva soltanto un piccolo pezzo centrale, di forma triangolare, conservato nella cripta che, prima della traslazione, custodiva le reliquie di S. Paride, protettore della città. Il cortese avvocato Guido Zarone mi ha confermato che quel frammento lapideo si trova ancora in quel luogo. Sarebbe il caso, forse, di recuperare il prezioso reperto e, facendo perno su di esso, ricostruirvi attorno le parti mancanti di quella iscrizione, in maniera tale da perpetuare un evento che rischia fatalmente di scomparire fra le nebbie indistinte del tempo e dell'oblio.
Fernando Riccardi
(da Il Sidicino - Anno VI 2009 - n. 05 Maggio) |