Verso la metà degli anni “30, vide la luce, nella nostra cittadina, un'iniziativa imprenditoriale destinata a durare nel tempo, per circa mezzo secolo, e ad accompagnare innumerevoli nostri concittadini nel loro esistenziale percorso, culturale e ricreativo. In quegli anni fu aperto, infatti, in Via Nicola Gigli, nelle splendide (ma non allora) sale del quattrocentesco edificio della “Cavallerizza”, attuale sede del Museo Archeologico, il “Cinema Teatro Garibaldi”. Ideatore di tale avventura fu mio nonno Antonio; il quale, già impegnato commercialmente nell'oreficeria di famiglia, intendeva, con la nuova iniziativa, fornire un'ulteriore opportunità di lavoro per taluno dei suoi due figli, Imerio o Augusto. Lungimirante, aveva egli sicuramente valutato la circostanza che, all'epoca, si avvertiva un grande bisogno di spettacoli e c'era fame di films (che, con l'avvento del sonoro, attiravano un numero sempre maggiore di appassionati: i quali non potevano ancora fare affidamento sul comodo home video; non c'era ancora la TV, figurarsi vhs o dvd). Mio nonno contava, inoltre, sulla possibilità di realizzare sinergie tra le sue due attività (ed, in effetti, vendita dei biglietti ed esposizione delle locandine dei films avveniva anche presso l'oreficeria), con l'intento, non secondario, di completare l'offerta locale nel settore dello spettacolo, già forte di altre strutture; e, mi piace pensare, anche al fine di fornire, al di là dell'intento di lucro, un'opportunità di crescita culturale per l'intera cittadinanza.
L'intuizione si rivelò, da subito, esatta. La Teano dell'epoca, non era solo quella dei palazzi gentilizi del centro storico, principale o secondaria residenza di nobili famiglie partenopee; era anche la Teano dello “scalino dei disperati” e degli “aiutatori di carrozze”, magistralmente descritta e fotografata da Renato Castellani in “Due soldi di speranza” (film realizzato da un soggetto di Antuono Celentano, nostro compianto concittadino) e il “Garibaldi” divenne, così, la sala che catalizzava l'interesse dell'intera popolazione di tutto il vasto comprensorio comunale: proveniente dalle numerose frazioni, un gran numero di persone assisteva, in particolare, agli spettacoli domenicali, che avevano inizio nel primo pomeriggio.
Fino al secondo conflitto mondiale, in sala si alternavano le proiezioni di films alle rappresentazioni teatrali e canore, prevalentemente ad opera di compagnie di avanspettacolo; tant'è che, tra gli artisti “di passaggio”, vi fu chi, ammaliato dalle bellezze locali, lasciò alla nostra città ben più che una dimenticabile, “bugiarda”, canzone.
E non mancarono neppure gli spettacoli circensi, che potevano aver luogo prèvia temporanea rimozione delle sedie allora utilizzate dagli spettatori, ad opera di compagnie che sulla collina di Sant'Antonio, come avviene anche ai giorni nostri, trovavano lo spazio per accamparsi.
Durante la guerra, l'attività risultò molto ridotta, un po' per le difficoltà di approvvigionamento delle pellicole, noleggiate presso case di distribuzione aventi sede nella martoriata Napoli; un po' perché, vigente l'oscuramento, si rendevano problematici gli spostamenti con il buio; un po', infine, perché, per un lungo periodo, la città fu completamente priva di energia elettrica.
Con il dopoguerra e la ricostruzione, l'attività riprese più scalpitante che mai e si provvide ad una ristrutturazione del locale, che assunse così l'aspetto mantenuto fino agli anni “70.
Varcato il portone di legno, aveva inizio una prima rampa di scale, piuttosto ampia e profonda, che terminava in un ballatoio; di fronte, una fontana (opera dei concittadini Antonio De Iorio, coadiuvato dal giovanissimo figlio Guido, e “Pariduccio” D'Errico) realizzata con materiale di risulta: una cascata di pietre e mattoni, verdi di muschio e ingentiliti da ciuffi di capelvenere; sui quali, parte scorrendo e parte stillando, l'acqua, che proveniva dalla sommità ove era posto un tubo di gomma verde, compiva il suo percorso, terminando con un dolce, musicale, gorgoglio, nella vasca a forma di mezzaluna (poco animata da muti, boccheggianti pesci rossi). Il tutto illuminato da alcune “tartarughe”: lampade munite di una gabbia metallica. Alla destra della fontana, un paio di scalini avrebbero consentito l'accesso ad un ampio locale (più o meno dove oggi è possibile ammirare la zona d'ingresso della sala museale), se questo non fosse risultato precluso dalla presenza di un imponente cancello a strette maglie metalliche, aperto solo a spettacolo iniziato, per utilizzare il varco come uscita di sicurezza e, in particolari occasioni, al termine degli spettacoli, per favorire il deflusso del pubblico. Da lì, sul lato destro, si dipartiva una seconda rampa, con gradini altrettanto ampi e profondi, che conducevano al precario gabbiotto della biglietteria, di color marrone scuro, formato da un'intelaiatura in legno e con le pareti fatte di una sorta di cartone pressato. Alla sinistra del gabbiotto, un ultimo gradino (dove sostava la maschera, a staccare i biglietti: còmpito svolto per anni dalla Sig.ra Amelia, moglie di Filippetto Salmé, a sua volta collaboratore alle proiezioni) e, quindi, di fronte, al di là di una teoria di manifesti affissi sulle pareti, si apriva la porta di accesso alla sala; sulla destra, un angusto corridoio ad “L” conduceva alla cabina di proiezione, cui si accedeva inerpicandosi su di un paio di irti scalini, prima di terminare con un'altra porta, a doppio battente, utilizzata per il deflusso del pubblico.
La sala, che a me bambino pareva enorme, era caratterizzata dalla presenza di nicchie laterali che si volevano fossero state ricovero, scuderie per i cavalli, e da altissime volte gotiche, a crociera, semi occultate da una teoria di corde parallele posizionate, per ragioni di acustica, ad un'altezza di circa 5/6 metri. Lungo la parete di sinistra, si aprivano due grandi porte aventi la duplice funzione di accesso all'area toilettes , nonché di uscite di sicurezza. I bagni erano chiaramente posticci rispetto all'ampio locale, delimitato da imponenti pareti in blocchi di piperno, che li ospitava; realizzati in muratura, erano posti in posizione marcatamente sopraelevata, dotati, se la memoria non mi tradisce, di “servizi” alla turca.
L'attesa
Un rito a sé era costituito dall'attesa dell'apertura del portone d'ingresso. In particolare in estate, nei torridi primi pomeriggi domenicali, si assisteva al progressivo assembramento di una piccola folla, composta essenzialmente da pubblico maschile (significativa differenza con ciò che accade presso le moderne multisale), alquanto irrequieto, per non dire turbolento, che trovava motivo di parziale rasserenamento nel consumo di una pizza o dello “scagliuozzo”, preparati da Angelica (titolare di un forno ospitato nel primo locale, posto alla sinistra del portone di accesso), o di lupini, semi di zucca e pizzelle fritte con i fiorilli, venduti in grosse ceste di vimini da due simpatiche vecchiette: “A 'Mpicciata” e “A Prefetta”, quando non da fichi d'India, puliti al momento.
Densa di “suspence” era anche l'attesa della proiezione, una volta guadagnato il posto in sala. Difficoltà di montaggio o, più spesso, l'assenza materiale della pellicola, facevano aumentare a dismisura la tensione. Capitava, infatti, che a causa del ritardo nella consegna delle “pizze” da parte della locale ditta di autotrasporti, la sala diventasse una bolgia, con un pubblico sempre più insofferente; il che costringeva i collaboratori, Gennaro Ferraro e Pasquale Mastrostefano, a precipitose sortite nella vicina Piazza Umberto I° , al fine di prendere in consegna, il più rapidamente possibile, le bobine di pellicola dall'autista della corriera (il mitico “35” di Sardella, condotto da “Peruzzella”), che lì aveva modo di fare inversione di marcia: almeno fin quando, poi, un automezzo più grande, il “Tubocar”, non consentì più tale manovra; obbligando, così, i miei familiari, al ritiro diretto delle pellicole, a Napoli, presso la sede delle case di distribuzione (Titanus, Cineriz, etc.: tutte ubicate nei pressi di Piazza del Gesù Nuovo) o lungo Calata Trinità Maggiore, lì trasportate da collaboratori del posto.
Il pubblico
“Nei secoli fedele”: la presenza dell'Arma era un'indispensabile corollario delle proiezioni più affollate; posti erano riservati alle varie autorità, civili, religiose e appunto militari; naturalmente, per rappresentazione, anche i figli di coloro i quali potevano fregiarsi di tale “status” godevano dell'immunità (dal versare il corrispettivo).
Détto del gran numero di persone provenienti dalle frazioni circostanti, va sottolineato che a volte era proprio il pubblico a rappresentare uno spettacolo nello spettacolo: con i suoi commenti ad alta voce durante la proiezione, con il deprecabile lancio di mozziconi accesi verso le file di spettatori antistanti, con le grida di accompagnamento alla corsa di grosse pantegane ( 'e zoccole) che, di tanto in tanto, decidevano di percorrere un alto bordo che correva lungo le pareti della sala. Nel caso di assenza (poco probabile) o di disattenzione da parte della forza pubblica, l'ordine in sala era garantito dall'intervento di Zio Imerio che, alla bisogna, sempre vigile dallo spioncino della cabina di proiezione, si “proiettava” tra le poltroncine per redarguire, e spesso per accompagnare alla porta, gli spettatori eccessivamente turbolenti.
Il periodo d'oro
Come accennato, dopo la seconda guerra mondiale, fino a metà degli anni “60, con il cinema ristrutturato, cominciò il periodo più florido per la struttura. La voglia di divertirsi dopo gli anni bui e l'importante produzione, nazionale con la rinnovata Cinecittà, internazionale, in particolare holliwoodiana, con una serie di kolossal, favorirono un incredibile successo di pubblico. I capolavori del neorealismo, come “Miracolo a Milano” o “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica e films epici, quali “I dieci comandamenti” di Cecil Blount De Mille o “Ben Hur” di William Wyler, furono protagonisti di ripetuti “sold out”.
Gli spaghetti western
Gli anni “60, e la prima metà degli anni “70, furono segnati dal fenomeno del western all'italiana, con la serie infinita dei “Ringo”, “Django”; dalla consacrazione del grande regista Sergio Leone, con la famosa trilogia: “Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più”, “Il buono, il brutto e il cattivo”; e dalle prove di tanti altri bravi cineasti quali Vancini, Corbucci, Tessari. Il variegato pubblico era sempre folto e partecipe, rapito dalla trama, completamente immedesimato nella parte del protagonista; tanto che all'immancabile duello finale, tra il classico “buono” e il “cattivo”, si lasciava andare a urla e incitamenti da stadio calcistico: famoso l'epiteto di “Ommo 'e ortica”, che uno dei più assidui frequentatori rivolgeva, a gran voce, al cattivo colpito e moribondo.
Arti Marziali e Commedia Sexy
Oltre ai western, gli anni “70 videro, in un primo momento, l'affermarsi di films legati alle arti marziali (in particolare, il kung fu ), il cui protagonista indiscusso, per certi versi “mitico”, era Bruce Lee; la cui morte, avvenuta nel 1973 e avvolta nel mistero, non fece altro che accrescerne la leggenda. Egli era padre di un bimbo che sarebbe diventato, anch'egli, un bravo attore; stò parlando di quel Brandon Lee che, ironia della sorte, trovò tragicamente la morte, giovanissimo, sul set di un film divenuto un vero e proprio“cult” (“Il Corvo”); risultando così, a sua volta, una figura leggendaria. “Dalla Cina con furore” fu la prima, ed anche la più seguita, di tali pellicole; intrise di scene violente e di sangue. Ad essa seguirono altri titoli come “Cinque dita di violenza” e “Il furore della Cina colpisce ancora”: in quel periodo, molti dei giovani cinefili si cimentavano, esaltati dalla visione, in improvvisate, improbabili, “mosse”, emuli dei loro beniamini.
A seguire, vi fu l'esplosione della commedia erotica all'italiana, con la trasposizione leggera, banale, il più delle volte insulsa, di racconti medievali, di trame boccaccesche, puri pretesti per film sguaiati, pruriginosi, e poi sempre più giù con film seriali di barzellette su “Poliziotte”, “Professoresse”, “Pierini”, “Soldatesse”. Sono gli anni che seguono e continuano la rivoluzione sociale e culturale del “68, e che tra mille contraddizioni portano anche in Italia la cosiddetta “rivoluzione sessuale”.
Il pubblico, in gran parte formato da giovanissimi, accorre alle proiezioni di metà settimana, dedicate alle seconde e terze visioni, ai “B-Movie”, e a quei primi fotogrammi di nudo integrale di attrici divenute poi famose (E. Fenech, G. Guida, L. Antonelli, N. Cassini, L. Carati, J. Tamburi e tante altre); chiede all'operatore il fermo immagine dei primi piani (per pochi secondi, in verità, perché altrimenti la pellicola correva il rischio di bruciare), per meglio gustare quelle visioni vietate ai minori di 18 anni (altri tempi, se si pensa agli attuali programmi trash televisivi). Fermo immagine sempre concesso, con “paterna complicità” da Gennaro “Cappottiello” Ferraro, che dopo aver chiesto alla platea il solito: “posso riprendere adesso”? continuava la proiezione.
La gestione del gruppo di Sessa Aurunca
Nella seconda metà degli anni “70, maturò l'idea di cedere l'attività; fu quello un periodo in cui, comunque, vennero proiettati alcuni capolavori, come “Novecento” di Bernardo Bertolucci o “L'ultima donna” di Marco Ferreri ; poi, subentrò, era il 1977, la gestione di una società che contava già le sale di Sessa Aurunca e di Roccamonfina. Furono effettuati lavori di ristrutturazione che riguardarono, in particolare, la sostituzione delle poltroncine (che avevano ancora la seduta in legno) e dell'ormai vetusto schermo. Favorita dalla possibilità di molteplici proiezioni, e ancor più da un diverso sistema di noleggio, con ripartizione dei ricavi tra esercente e casa di distribuzione, la programmazione cambiò in meglio; e così, provenienti dagli Stati Uniti, furono proiettati al “Garibaldi” films di grande richiamo; taluni, autentici capolavori. Mi vengono in mente “Rocky”, che consacrò la figura di Sylvester Stallone; “Taxi Driver”, di Martin Scorsese, con un Robert De Niro, inquietante tassista; “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg, con ragguardevoli effetti speciali; da ultimo, “La febbre del Sabato sera”, di cui ricordo una proiezione mattutina alla quale assistemmo noi, studenti dell'I.T.C.G. “Ugo Foscolo”, in libera uscita: affascinati dalle evoluzioni in pista del “ballerino” John Travolta e rapiti dalle note della colonna sonora, opera prevalentemente dei Bee Gees.
Il terremoto e la chiusura
A privare la nostra cittadina del piacere di assistere ai capolavori del grande schermo, provvide la scossa di terremoto del 23 Novembre 1980. Il complesso della “Cavallerizza” subì, nell'occasione, ingenti danni: la sala divenne inagibile e, contemporaneamente , il Comune avviò l'iter per poter rientrare nella disponibilità dei locali; dove, come poi in effetti è stato fatto, si pensava di realizzare il Museo Archeologico. Nel frattempo, anche il modo di fruire delle opere cinematografiche subiva sostanziali cambiamenti: da un lato, l'avvento di videoregistratori e dvd consentiva una più comoda visione domestica; dall'altro la nascita delle prime moderne multisale rendeva sempre più obsolete e poco competitive, le sale cinematografiche di un tempo. Per il “Cinema Teatro Garibaldi”, da tempo non più teatro, il destino era segnato; ma, come fenice risorta dalle ceneri, il luogo che lo ospitava è divenuto, grazie alla caparbia volontà di chi ha creduto in tale progetto “ il museo più bello d'Italia” (secondo le parole del compianto giornalista e scrittore, Igor Man).
Antonello Boragine
(da Il Sidicino - Anno VII 2010 - n. 07 Luglio) |