TEANO

 
Il passato
 
L'autunno 1943: deportazione e bombardamenti
 
La deportazione del 23 settembre
 
 
LUOGHI DELLA MEMORIA
- 23 settembre 1943 Piazza Umberto I -
 

Ora che invade  le oscurate menti
Più aspra pietà  del sangue  e della terra
Ora che ci misura ad ogni palpito
Il silenzio di tante ingiuste morti……
G. Ungaretti

Il dibattito, sul  progetto di demolizione della “Casina” di Piazza Umberto I, ha riportato alla memoria  un episodio che i giovani ignoravano, e che i meno giovani avevano dimenticato o rimosso dai loro cuori e dalle loro menti. I pochi testimoni ancora viventi, attori sfortunati dei fatti che ebbero come teatro  Piazza Umberto I e la “Casina” hanno, invece,  con interventi forti e accorati, con richieste e sollecitazioni, disvelato alla pubblica coscienza il triste tempo  della guerra,  dell’occupazione nazista e l’episodio del 23 settembre 1943, che culminò con la cattura e la  deportazione  di  quasi tutti gli uomini validi al lavoro del nostro comune.
Con l’animo colmo di tristezza e di dolore, sono riandati a quei giorni sciagurati  in cui  centinaia furono i deportati, e tanti e tanti i giovani,  e le donne, rimasti senza padri, fratelli, mariti.
Quello che segue è la  testimonianza dei fatti accaduti, narrati da  alcuni dei presenti, allora bambini d’otto e dieci anni, e d’uno di quei poveretti che hanno dovuto subire “la stolta iniquità della deportazione”.
Dal dissolvimento del regime fascista, nell’arco di  poco più di due mesi (25 luglio arresto di Mussolini e nomina del maresciallo Badoglio,  13 settembre dichiarazione di guerra alla Germania) si passò, da proclami d’amicizia ai tedeschi e di continuazione della guerra al loro fianco, a posizioni incomprensibili e ambigue, che disorientarono e gettarono nello sconforto le truppe e la nazione.
L’inettitudine, la cecità e l’insipienza dei governanti italiani, furono causa dei tragici avvenimenti che insanguinarono e devastarono per oltre due anni l’Italia. Alla proclamazione dell’armistizio  dell’8 settembre 1943, (siglato il 3 a Cassibile, in Sicilia) prevalse, in un primo momento, nella popolazione, un senso di liberazione, di cessato allarme ed anche  di contenuta euforia, poiché si attendeva il segnale della fine delle ostilità e l’annuncio della pace.
Fu, però, un’illusione di brevissima durata, poiché, con immediatezza, sopraggiunse dal comando supremo tedesco l’ordine di trattare l’Italia come un paese occupato.
Cominciarono allora i soprusi e le violenze  verso la popolazione inerme, che a causa della guerra, viveva, e sopravviveva, tra sofferenze, tribolazioni e privazioni di ogni tipo.
Alle depredazioni, ruberie, alla violenza delle rappresaglie quotidiane, a Teano le forze naziste, con la complicità dei fascisti,  il 23 settembre fecero seguire l’azione più odiosa e scellerata: la cattura e la deportazione di  tutti gli uomini validi della nostra provata città.
Il 23 settembre, la città si svegliò illuminata  e riscaldata dai raggi del sole, in un autunno che sembrava voler lenire, col suo tepore, le cicatrici profonde che martoriavano la carne dei propri figli.
Era una calda e limpida  mattinata, e i teanesi, gente semplice che sopravviveva dei frutti della terra, erano per la maggiore parte usciti di casa alle prime luci dell’alba  e affollavano le vie del paese. La  piazza “settecannelle” (oggi Piazza G. Marconi) era gremita di contadini di tutta la zona, poiché settembre è il mese della raccolta delle castagne, e  Teano era allora il centro del commercio di tutta l’area del massiccio di Roccamonfina.
Ogni agricoltore portava il proprio raccolto, la propria “ricchezza”,  l’assicurazione contro la fame, in tempi in cui si sopravviveva con una dieta a base di patate, fave, cicorie ed erbe spontanee dei campi. Tra quel vociare indistinto, quell’andirivieni  d’ortolani, di massaie, bambini, contadini e artigiani, nulla lasciava presagire  ciò che di lì a poco sarebbe accaduto.
Verso le otto,  il banditore Luigi Vastano, “ Luigi ‘a titella”, con la sua trombetta richiamò l’attenzione  generale ed avvisò che tutti dovevano recarsi in Piazza Umberto I, poiché il Podestà, avv. Marseglia, doveva comunicare fatti importanti e proporre possibilità di lavoro.
Alla spicciolata, gran parte dei presenti cominciò ad avviarsi verso la piazza, con la speranza  di ottenere un qualche lavoro, anche se, ai più attenti, non era sfuggito il fatto che il Podestà veniva accompagnato,  d’imperio, da militari tedeschi armati di tutto punto.
Verso le ore 10,00 la piazza risultò gremita, anche di tutti gli artigiani che con le loro botteghe animavano, (allora!), il centro storico.
Il Podestà, dal terrazzo “Arengario” del Circolo del Littorio, un tempo “Casino” del Circolo dell’Unione,  cominciò, con voce malsicura, un improponibile discorso  sulla necessità, per il bene del paese, dei concittadini e delle loro famiglie, di andare a lavorare in Germania per i tedeschi.
La folla dapprima si zittì, cercando di comprendere il senso reale delle parole udite, poi con disillusione, tra esclamazioni colorite e bestemmie, tentò di far ritorno alle proprie occupazioni.
In quel momento, come un solo uomo, i soldati  nazisti, posizionati nei punti strategici, ad un segnale prestabilito, sbarrarono il passo a chiunque.
Allora, solo allora, fu chiaro il senso del comizio del podestà: tutti gli uomini validi del paese, i figli migliori di quel disgraziato paese, dovevano per forza, da prigionieri, andare a lavorare in Germania. Cominciarono le urla, i pianti dei bambini, e delle donne presenti, gli inutili tentativi  di sfuggire alla cattura, ma non fu possibile, tutti gli uomini  furono presi, con il “forzato”  apporto dei Reali Carabinieri e dei Vigili comunali del comandante Santoro.
In quella occasione, e nei giorni susseguenti, si dimostrò, oltre al rispetto e la fedeltà alle regole militari, il gran senso d’umanità dei Carabinieri, ed in particolar modo del brigadiere Rocco Mignone, che cercò in tutti i modi di aiutare i propri concittadini, e il senso d’appartenenza e di fratellanza dell’intera comunità, di fronte ad eventi che brutalmente sconvolgevano la vita d’ognuno e che   sradicavano dai propri affetti intere generazioni, lasciando soli, al proprio destino, i bambini, i vecchi e le donne.

  ….ora che prova un popolo
                       dopo gli strappi dell’emigrazione,
                                 la stolta iniquità            
   delle deportazioni……
G. Ungaretti

Arrivarono dei camion militari, (forse 6 o 7) e i circa trecento catturati  vi furono fatti salire, tra le invocazioni, i pianti e le grida  delle donne,  mogli, madri e sorelle di quei poveri disgraziati.
La città, e la Piazza Umberto I, fu allora teatro di una scena che, con lacerante dolore, è rimasta impressa nei cuori dei presenti, simile a quella che Roberto Rossellini ha reso indelebile alla memoria universale, con la rappresentazione della  sciagurata “Pina” (Anna Magnani) che insegue disperata il camion che porta via il suo uomo, “icona” tragica e immortale del cinema mondiale, nel film “Roma città aperta”,  pietra miliare del neorealismo.
Interi nuclei familiari furono strappati ai loro cari, e tra questi, quello di uno  dei testimoni intervistati, Grieco Armando, deportato assieme al padre Antonio e allo zio Alessandro  (commercianti di castagne)  nel campo di concentramento n. VII/B di Memmingen,  (numeri di matricola  9993, 9992 e 9991).
Nel suo ricordo, tra tutti i disgraziati strappati alla propria terra, impressi a vivo fuoco,  quelli che  condivisero con lui la triste sorte di deportati, in quel campo d’internati: Feola Angelo (maniscalco) Lauro Antonio, Stabile Domenico, (barbiere) Melese Antonio, Boragine Augusto (gioielliere), Cecere Vincenzo (maniscalco), il figlio Pasquale, Raffaele  Pilotti (barbiere), Canzano Antonio, Lerro Michele, suo fratello Vincenzo (commercianti di tessuti) il loro cognato avv. Gustavo Pepe,  Caliendo Armando, Ranucci Sabatino, il cognato Alfonso Rendina, Caprio Antonio, Gammella Pasquale (cantiniere, morto in prigionia), Grillo Antonio (calzolaio), Pilotti Paride e il fratello Giuseppe (calzolai), Aletto Pasquale (ramaio), Ferraro Carmine, Fumo Antonio.
Nei giorni successivi si susseguirono, nel paese e nelle campagne, con la collaborazione dei fascisti, i rastrellamenti,  e si procedette alla cattura di numerosi cittadini che, per fortuite circostanze, non erano stati presenti al mercato del 23 settembre. Allora, in una gara di cristiana e umana solidarietà, tanti si salvarono, grazie all’aiuto  d’amici e consanguinei, nascondendosi  nei cunicoli e cavità di cui è ricco il nostro sottosuolo, e nelle “suppegne”  dei vecchi fabbricati, che costituirono rifugio  e ricovero provvidenziali alla ferocia nazifascista.
Gli uomini catturati furono trasportati direttamente a Frosinone, e  fatti provvisoriamente alloggiare in un edificio scolastico, dove lì vicino, alcune donne intente a lavare i panni, in quei lavatoi allora tanto frequenti, incitavano alla fuga i prigionieri, almeno i più giovani, cercando di aiutarli.
Grieco Armando, allora diciottenne, fu tentato di fuggire ma, per non abbandonare il padre e lo zio, rinunciò, per sua fortuna, perché nell’attimo stesso in cui  considerava la fuga, si sentì uno sparo,  e un povero ragazzo che cercava la libertà fu barbaramente assassinato, sfigurato da un proiettile che  gli trapassò il cranio, devastandogli il volto.
Rifocillati con miseri pezzi di pane nero, il 26  furono portati alla stazione, fatti salire, come animali, su dei carri bestiame, chiusi ermeticamente dall’esterno, e costretti, per i loro bisogni corporali, a praticare, a mani nude, un’apertura sul pianale del vagone.
La prima tappa, il 2 ottobre, fu al Brennero, accolti da un cappellano, e poi direttamente sul suolo tedesco con destinazione i vari campi di concentramento,  quale manodopera gratuita per l’industria bellica e civile, l’agricoltura e per i lavori edili e stradali. Altri, in maggioranza quelli catturati nei rastrellamenti dei giorni seguenti,  furono portati al campo di concentramento di Sparanise, ove furono migliaia i deportati di tutta la regione che vi  passarono, e che da lì  intrapresero il viaggio per la Germania.
Dovettero aspettare la resa nazista  del 7 maggio 1945,  e il successivo 26 agosto, (campo di Memmingen) quelli che sopravvissero agli stenti, alle fatiche, alle malattie e alle umiliazioni,  per essere liberati e far ritorno alle proprie case.
Fu un viaggio che durò mesi, fatto su camion, carri, tratti in ferrovia e giornate e giornate,  camminando, contando solo sulla resistenza delle proprie gambe.
Con la speranza di abbracciare i propri cari, e il terrore e l’angoscia di conoscere ciò che la sorte aveva, ancora, loro riservato.
Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi fu ancora peggio dei tristi presagimenti, il paese era stato devastato dai bombardamenti degli alleati anglo-americani, nel loro cammino per liberare l’Italia dal dominio nazista, e a centinaia furono le vite innocenti spezzate.
Dovettero apprendere della perdita di tanti parenti, amici e conoscenti che quell’assurda pazzia nazista  si era portati via, (a Grieco Armando, la sorella Antonietta), oltre ai tanti paesani morti, sui vari fronti di guerra, da soldati.
Il paese era ridotto a brandelli, e, ovunque, aleggiava forte il senso della morte e della distruzione. Quello che era stato un florido e ameno  paese, luogo di villeggiatura e di riposo privilegiato, da parte della nobiltà napoletana, con tanti e insigni monumenti, si presentava sconvolto e con un’aura di spettrale cupezza.
I bombardamenti terribili dei giorni 6, 22 e 29 ottobre 1943, e i cannoneggiamenti, che dovevano  servire per annientare le forze tedesche che andavano ad attestarsi sulla linea di Cassino, (che divideva l’Italia in due) produssero oltre 124 vittime civili (almeno quelle censite dall’A.N.V.C. di G. Sez. di Caserta) ed un numero imprecisato, ma egualmente consistente, tra gli sfollati del napoletano, che a centinaia avevano trovato riparo in città.
Intere zone e i simboli della cultura cittadina furono colpiti: il quartiere di S. Agostino, di S. Giovanni,  il quartiere medievale di S. Pietro, quello della Viola, il  bel Duomo romanico (poi ricostruito da R. Pane), il complesso di S. Maria de Foris, la stupenda chiesa barocca dell’Annunziata (del Vaccaro), S. Francesco; niente sfuggì alla cieca devastazione.
Cominciò allora un lento, ma inarrestabile,  percorso, irto di difficoltà e ostacoli, a volte insormontabili, per la ricostruzione materiale e morale del paese e dei suoi abitanti. E, se rinascita c’è stata, gran merito lo dobbiamo  a tutti quelli che, nonostante le traversie e le dolorose perdite subite,  tennero duro  in quei tetri tempi, e che, con pervicacia, lottarono per il futuro  di Teano.
Per loro, e per le giovani generazioni, che fortunatamente non hanno conosciuto le aberrazioni della guerra, e i germi della  follia che essa contiene, dobbiamo far sì che quei  momenti non vengano cancellati  ed obliati, ma, rimangano, invece, sempre vivi e  di monito.
Perciò é doveroso che la civica Amministrazione celebri il 23 settembre in maniera ufficiale, e proclami Piazza Umberto I “Luogo della memoria” con l’apposizione di una lapide che ricordi quei tragici e sciagurati avvenimenti.
Lo dobbiamo, ai nostri padri, e ai figli dei loro figli.

Martino Amendola
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 11 Novembre)

Grieco Armando nel 1942