A noi sessantenni di oggi è toccato di assistere al crepuscolo rapidissimo di un piccolo mondo pieno di tradizioni, di valori e di significati. Siamo stati testimoni, più o meno consapevoli, della scomparsa progressiva di un microcosmo cittadino dapprima lacerato dalle devastazioni della guerra, poi definitivamente cancellato dal rapido progresso del dopoguerra. Forse è stato il pedaggio che abbiamo dovuto pagare per giungere, come si dice oggi, a una migliore qualità della vita che effettivamente è pervenuta a livelli insperati.
Paragonando le attuali condizioni di vita con quelle del recente passato, confrontando l'uso generalizzato del dialetto con la lingua o la staticità di certe tradizioni con la smania di voler cambiare tutto ad ogni costo, ci chiediamo se è stato un bene o un male; se abbiamo perso o abbiamo guadagnato. I vantaggi dell'oggi, senza ombre di dubbio, sono superiori alle perdite subite. Bisogna però ammettere che nella corsa sfrenata verso il benessere materiale abbiamo perso qualcosa di prezioso e di insostituibile, anche se non sempre per via del progresso.
Tra i residenti nei vicoli e quelli del Corso, tra gli abitanti dei bassi e quelli dei palazzi, era presente un'umanità viva e solidale, che attraverso secoli di vicissitudini e di stenti era riuscita a conquistare una sua configurazione sociale stabile e aveva accumulato un patrimonio di valori che si è dissolto.
Considerando questo mondo appena scomparso, ma che già sembra tanto lontano, riemergono dalla memoria personaggi scomparsi. Persone semplici, perennemente afflitte dalle tristi condizioni del tempo, ma capaci di entrare nella memoria collettiva perché sapevano suscitare attenzione e guadagnarsi considerazione.
Uno di questi personaggi era un modesto sacrestano. Era al servizio di don Nicola, un prete colto ma caparbio e non molto generoso, che lo aveva ereditato, suo malgrado, dal predecessore.
Gli scarsi introiti da sacrestano gli imponevano di non abbandonare il suo antico mestiere di solachianiello, che non era proprio un calzolaio, capace cioè di confezionare scarpe, ma che si limitava a ripararle, ricevendo molto spesso un compenso fatto di poche uova, un poco di lardo, qualche rocchio di salsiccia, un pezzo di cacio, una pagnotta. Era però un uomo di non comune intelligenza e sapeva industriarsi in mille modi per sbarcare il lunario. Dopo la prima messa del mattino si recava in giro per il paese facendo gli auguri a chi quel giorno festeggiava l'onomastico. Portava a casa dei festeggiati fascetti di fiori, per lo più quasi appassiti, che recuperava in chiesa. Si recava prima a casa di quelli che elargivano più soldi e poi dai meno prodighi, seguendo una scaletta che ben conosceva. Qualche volta lo si sentiva dire che a novembre i festeggiati prendevano male il suo rito degli auguri per via dei crisantemi che offriva. "Va a fa' bene - diceva - non capiscono che questo è il fiore più bello che significa: morte, resurrezione ed elernità".
Una mattina, appena dopo Pasqua, don Nicola stava confessando una signora che, timorosa di ricevere un rimprovero, gli disse: "Padre, non so se faccio bene a dirlo, ma ho paura di peccare se non lo dico".
Don Nicola garbatamcnte la invitò ad aprirsi e a confessare il peccato.
"Veramente padre, il peccato non l'ho commesso io, ma il vostro sacrestano ed è per questo che non so se Io devo dire o no".
"Figliola me lo devi dire, anche perché quello me ne combina una dopo I'aItra".
"Prima di Pasqua - confessa allora la donna - quando siete venuto a benedire Ia casa, vi ho regalato dieci uova. Il sacrestano ne ha messe cinque nel vostro paniere e cinque se I'è messe in tasca".
Don Nicola, in tutta fretta, assolve la donna; esce come una belva ferita dal confessionale e si avvia di corsa verso la sacrestia. Il sacrestano è sull'altare, intento ad accendere le candele. Don Nicola, senza neanche genuflettersi davanti al tabernacolo, rosso come un peperone, gli grida alle spalle con quel suo vocione da baritono: “MariuoIo, mariuoIo" e scappa in sacrestia.
ll sacrestano si gira per vedere con chi I'avesse mai il parroco e non vedendo nessuno pensa tra sé: "Don Nicola è uscito pazzo". Sistemate le candele, entra in sacrestia per aiutare il parroco a vestire i paramenti. Don Nicola, appena lo vede, gli va incontro quasi per menarlo e grida: 'MariuoIo, mariuolo, mariuolo, questa è I'ultima che mi fai. Caccia subito le cinque uova o ti Iicenzio".
Per nulla offeso, il sacrestano replica prontamente: "È vero che donna Cristina mi dette dieci uova senza dire però se erano per me o per voi. Io, da galantuomo quale sono, volli regalarvene cinque. Poi, se proprio ci tenete a Iicenziarmi a me sta bene, ma non potete certamente vietarmi di andare da monsignore il Vescovo a riferirgli che stamattina mi avete rivelato la confessione di donna Cristina, perché questo sacrilegio che avete commesso devo per forza confessarlo".
lntimamente irritato, don Nicola è quasi sul punto di chiedergli scusa. Fa flnta di accorgersi che è tardi per la celebrazione della messa e si avvia verso l'altare, con tanta rabbia in corpo, pensando alle cinque uova e a tutte le altre cose che sicuramente il sacrestano gli aveva sottratto.
Quante persone, umili, incolte, povere di quel piccolo mondo antico dell'anteguerra entravano con forze nelle simpatie e nella memoria di tutti. Era un mondo circoscritto, senza distrazioni, che ti faceva prestare attenzione alle vicende, belle o brutte, di chi ti stava vicino e che oggi invece nemmeno conosci.
Pasquale Giorgio
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 7 Luglio) |