Adelina, se fosse ancora tra noi, oggi, avrebbe sulla sua bottega un’insegna: La Boutique dei carboni. Sul Corso Vittorio Emanuele, quasi ad angolo con largo Zito, c'era la casa-bottega di Adelina. Un basso umido, semibuio di giorno, con pareti annerite dalla polvere sottile dei carboni. A sera, la luce di un lampione che illuminava il Corso rischiarava, con bagliore argenteo, le pareti scure della casa-bottega e gli oggetti sparsi in quella stamberga acquistavano risalto di bassorilievi.
Di fronte all'entrata, un piccolo tavolo e una sedia costituivano l'arredamento della sala da pranzo. Poggiato al battente destro della porta c’erà un tavolo sgangherato con un cestino di frutta di stagione e un altro cesto con qualche cespo d'insalata, due fiori di zucca e una ciotola con dei lupini, tutta merce fornita di buon mattino da qualche contadina per pochi spiccioli.
La vera mercanzia, però, erano i carboni. Ce n’era un mucchio ai piedi del letto -giaciglio più che letto- che occupava i tre quarti del basso ed erano proprio i carboni che la tenevano impegnata quasi tutta la giornata nella vendita.
Adelina era una donna sola. La sua unica compagnia era un gatto nero e bianco, grasso come un maiale. Quando poteva, tra un cliente e, l'altro, si sedeva sull'uscio con in braccio questo micione. All'arrivo di un cliente lo adagiava dolcemente sul giaciglio, gli farfugliava qualche cosa ed andava a pesare i carboni. La faccia di questa gentile signorina, di una sessantina di anni, sembrava tagliata con l'accetta tanto erano duri i lineamenti; l'ammorbidiva solo la pelle cascante delle guance e un principio di pappagorgia.
Una donna dallo sguardo profondamente turbato, capelli grigi lisci sul capo e annodati dietro in una grossa crocchia; occhi quasi spenti, con palpebre semichiuse; il naso grosso come una patata sembrava le fosse stato appiccicato sul viso. La bocca era completamente priva di denti. Il viso pieno di peli e i folti baffi la faceva sembrare più uomo che donna, se non fosse bastato a distinguerla il suo abbigliamento. Come vestiva si poteva ammirare verso mezzogiorno, quando lasciava il negozio per recarsi alla fontanina pubblica di Largo Zito ad attingere un poco d'acqua per cucinare.
L'acqua purtroppo non le serviva ad altro, perché durante la sua vita non si era mai lavata e si poteva vedere dalla faccia e dalle mani nere come il carbone che vendeva. Altre parti del corpo non si riuscivano a vedere perché vestiva in un modo così buffo che se non avessimo fatta l’abitudine alle sue stranezze, sarebbe stato un divertimento sempre rinnovato starla a guardare. D'estate indossava un camicione originariamente bianco, d'inverno delle lunghe giacche, di colore indefinibili, orlate di pellicce spelacchiate, sopra delle sottane nere che le arrivavano fino alle caviglie, e sotto queste sottane si muovevano due scarponi quasi da sciatore, sempre slacciati. Comunque era molto fiera del suo abbigliamento e credo che scambiasse per ammirazione la curiosità divertita con cui la gente la guardava.
All'imbrunire, d'inverno, tirava fuori un fornello arrugginito, accendeva due carboni e vi poggiava sopra una vrolara con le castagne, e sempre all'imbrunire, nelle altre stagioni, sul fornello metteva una padella senza manico, piena di ammaccature, per abbrustolire semi di zucca o ceci. Poi si sedeva sull'uscio, col gatto in grembo, ad attendere i pochissimi coraggiosi clienti che andavano a comprare lo spasso, così si chiamavano i lupini, i semi e i ceci abbrustoliti.
Momento di felicità per Adelina era accarezzare dolcemente il gatto sotto la pancia mentre con voce ritmata gli cantava la ninna-nanna; cosa gli dicesse non si è mai capito, ma è certo che l'animale, con gli occhi velati, cedeva alla dolcezza dell'invito e si addormentava. Quell'intimità era interrotta in alcune sere da noi ragazzi, e la felicità di Adelina, in un solo momento, si trasformava in triste amarezza, quando, facendo finta di voler comprare qualcosa, uno di noi diceva: Adelì! Te vuò venne ‘a jatta? In quel preciso istante Adelina acquistava un vigore stizzoso e dalla bocca sdentata uscivano ingiurie e allusioni offensive, alcune tratte dalla tradizione, altre piene di estro bizzarro, mentre noi indifferenti proseguivamo la passeggiata per il Corso. Così passavano gli anni per la povera Adelina, felici, tra gatto, carboni e spasso.
Un brutto giorno, però, una nipote decise di trasferire nella bottega la tabaccheria che Adelina aveva dato in gestione ad altri. Così la povera Adelina fu traslocata in un vicolo del Corso per poi essere ricoverata presso la Confidenza Castallo. Formalizzate le pratiche, una mattina fu spedita all’ospizio. Portata in bagno fu presa all'improvviso dalla dolcissima Suor Veronica e da altre persone e buttata in una vasca. Le urla di Adelina nella vasca si udivano da Piazza Duomo a Piazza Marconi. L'operazione lavaggio durò diverso tempo. Dopo averla asciugata, le fecero indossare un camicione bianco mentre Adelina cercava di colpire con calci e pugni la suora e le povere donne che l'avevano aiutata. Trascorse l'intera giornata digiuna, piangendo ed implorando “datemi u' jatte mio” e così la notte. La mattina seguente, appena vide la suora che cercava di consolarla, dalla bocca di Adelina uscirono tante belle parolacce accompagnate da pianto dirotto, da implorazioni e minacce: datemi u' jatte mio o te spacco sta capa e' pezza, a te e chelle quatte p…… amiche toie che t'aiutano a maltrattà a povera gente.
Poco durò la permanenza all'ospizio perché Adelina non resse al dolore della perdita del gatto, dello sporco e della sedia sull'uscio della bottega sul Corso.
Pasquale Giorgio
(da Il Sidicino - Anno V 2008 - n. 11 Novembre) |