TEANO
 
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Andrea Pazienza: "L'insostenibile enigma dell'essere"
 
“PAZ” -  il film

La proiezione del film di Renato de Maria, “Paz”, organizzata dai ragazzi del ”Forum giovanile”, nel cineforum di S. Pietro in Aquariis, all’interno del ciclo “I giovani e il sud” (i sud), oltre a rappresentare una salutare ventata d’aria pura e frizzante, per l‘iniziativa in sé, è stata anche l’occasione per far conoscere alle nuove generazioni la figura di Andrea Pazienza, la sua vita, la sua arte. L’utile opportunità per ripensare gli anni “70, e il malessere diffuso di quel periodo, senza ricondurre tutto al terrorismo e alla lotta armata, per rivivere le istanze e le passioni giovanili che animavano le interminabili discussioni di quegli anni, la velleità di cambiare il mondo, e il sogno dell’ ”immaginazione al potere”.
Il film rievoca lo scorcio di un’epoca piena di fermento culturale (la controcultura), di creatività diffusa e d’impegno politico vissuto quotidianamente e collettivamente. Restituisce, abbagliante e vivida, la luce e l’atmosfera della fine degli anni “70 (il “77), e di una città, Bologna,  in cui la gioventù, con  il “Movimento” ribelle e duramente contestatore, è protagonista (e vittima).
Riporta gli anni di “Radio Alice”, la voce del movimento, la più aperta e rivoluzionaria negli anni delle “radio libere”, che amplifica quegli ideali giovanili di cambiamento e di rottura, e incita a lottare per  una società diversa, più libera,  più giusta,  di eguali e senza sfruttamenti.
Bologna è la città in cui Andrea Pazienza, nato a S. Benedetto del Tronto il 23 maggio 1956, approda per frequentare il “Dams”, dopo gli anni del liceo artistico a Pescara e l’infanzia vissuta nell’assolata e sonnolenta Puglia, a S. Severo, il paese del padre.
Il film, che si svolge nell’arco di 24 ore, riporta alcuni episodi della vita di un gruppo di studenti fuori sede che vivono nella stessa casa.
Racconta la loro vita annoiata e svagata, la logorante ricerca di un senso della realtà e della propria esistenza, la militanza politica nei “collettivi” e nella sinistra extraparlamentare, e poi l’amicizia, l’amore, la musica,  e la droga.
Protagonisti sono i personaggi creati dalla matita di Pazienza: Pentothal, Zanardi e Fiabeschi (l’unico che De Maria ha in qualche modo “rivisitato”), che interpretano alcune delle storie apparse su “Alter”, “Frigidaire” e altre riviste di fumetti degli anni “70 e “80, intrise di umori contrastanti e dirompenti, di speranze, illusioni, disillusioni, violenza  e cinismo paradossale.
De Maria, amico dell’artista, e compartecipe della vita di  quegli anni del Dams, con questo film ha vergato un atto d’amore per  l’arte di Andrea Pazienza e per ciò che quel periodo, ricco di impulsi e sperimentazioni, ha  significato per la vita artistica e  culturale europea.

Periodo, luoghi e situazioni  ottimamente  rappresentati anche in un altro bel film (che consiglio ai ragazzi del “Forum”): “Lavorare con lentezza” di Guido Chiesa che, attraverso la storia di Radio Alice, di Bifo e il rock di Patty Smith e Tim Buckley, ha  realizzato un affresco denso di suggestioni, incentrato sulla necessità, allora come oggi, di riappropriarci del nostro tempo.
La sensibilità dilatata  di un genio,  la coscienza  di una generazione.

In una foto di Luciano Ferrara, Andrea Pazienza mentre disegna con i pennarelli su un muro della Mostra d'Oltremare

Andrea Pazienza, stabilitosi a Bologna nel 1975, fa il suo esordio ufficiale nel mondo del fumetto nel “77, con la prima puntata de “Le straordinarie avventure di Pentothal”, pubblicata sul n. 4  della rivista “Alter-Alter”, nata dalle costole della storica e rivoluzionaria “Linus”, diretta da Oreste del Buono, che negli anni “60 dà il via al folgorante viaggio che porta il “Fumetto”, dall’essere storielle e oggetto di consumo per ragazzi, a divenire letteratura disegnata, “lettura complessa, che deve stabilire nessi non sempre ovvii nella sequenza dei disegni e nel rapporto tra disegno e parola” (Sergio Bonelli), arte matura e con piena ed autonoma dignità.
Pentothal è il diario e il manifesto di una generazione che esprime speranze, ironia, rabbia, malinconia, creatività, riso, sogni rivoluzionari, e che mescola visionarietà, umori e cronaca, “autobiografia eccentrica fatta di incrostazioni visive, con le pagine disegnate come un taccuino pieno di appunti di sopravvivenza in cui gli stili svariano dall’underground di Crumb alla pienezza casereccia di Jacovitti, dal segno graffittato di Munoz al lavoro di incisore di Moebius” (Daniele Brolli). E’ il resoconto della contestazione studentesca, degli scontri con i fascisti, delle cariche della polizia, con la voce di Bifo dalla sede di “radio Alice” sgombrata in diretta, e, poi, dell’uccisione di Francesco Lorusso.
E’ la storia che gli procura consensi e notorietà, e che lo porta alla creazione di nuove e stupefacenti avventure. La sua vita è un vortice continuo di iniziative e di sperimentazioni, ad onta della sua proverbiale pigrizia, che lo porta ad essere uno degli animatori della “Traumfabrik”, l’ala creativa del movimento che riunisce gli artisti delle più svariate costellazioni: musicisti (i Gaznevada) scrittori (Tondelli, Palandri e altri), attori, e i disegnatori del gruppo del “Cannibale”, rivista di fumetti underground, di cui fa parte. E’ tra i fondatori, nel ‘78, della rivista satirica “Il male”, poi, nel 1980, assieme al gruppo del “Cannibale”, Mattioli, Scozzari, Liberatore e Tamburini dà vita a “Frigidaire”, rivista tra le più importanti del panorama europeo in cui, oltre ai fumetti, alla musica, allo spettacolo e al costume, vi è la “rappresentazione in tempo reale del nostro pianeta” con inchieste, interviste, servizi sul terzo mondo, sul Guatemala, sull’Afghanistan, sugli esclusi, sul mezzogiorno, sulla guerra, sulla mafia, e traduzioni di testi inediti di autori come J. Genet, T. B. Jelloun, e quello di J. L. Borges su Dante.
Pazienza è un talento narrativo ricco di humour e d’ironia, un virtuoso del segno, con una padronanza tecnica notevole, una velocità d’esecuzione strabiliante e senza esitazioni o ripensamenti, e con una gamma stilistica pressoché infinita, che varia da storia a storia e, all’interno della stessa, da tavola a tavola. Capace di passare dall’estrema accuratezza e ricercatezza formale, allo schizzo scheletrico e improvvisato, elaborato e raffinato e insieme povero ed essenziale, realista e caricaturale. Inventore, sul piano lessicale, di un nuovo linguaggio frutto della contaminazione dei dialetti, bolognese, pugliese e napoletano degli studenti del dams, e del gergo giovanile e contestatario, crudo, sboccato e senza riguardi.
Conosciuto e  apprezzato, disegna per il teatro: scenografie e costumi; per il cinema: i manifesti pubblicitari del film di Fellini “La città delle donne”; per la musica: le copertine dei dischi di Roberto Vecchioni e Claudio Lolli.
Collabora con le maggiori testate del fumetto italiano, da Linus a Corto Maltese, a Comic Art, e con gli inserti satirici Satyricon di “Repubblica”, Cuore de “l’Unità” e con il quindicinale Zut.
Con Zanardi, personaggio al quale viene indissolubilmente accostato e identificato, al pari di Corto Maltese per Hugo Pratt (altro gigante del fumetto mondiale), è consacrato artista di spessore universale. Zanardi, creato nel 1981, segna la fine delle speranze di cambiamento, il venir meno del fuoco ideale e collettivo che aveva animato il movimento, che dal “68” era confluito nel magma del “77” e imploso con la scelta scellerata della lotta armata. Sono gli anni del riflusso, del rampantismo sociale, del rinchiudersi in orizzonti limitati e privati, anni in cui i versi “profetici” di Claudio Lolli: “disoccupate le strade dai sogni” trovano triste e dolorosa conferma. Zanardi, con Colasanti e Petrilli, gli “studelinquenti" liceali pluri-ripetenti,  raffigura l’inaridimento delle coscienze, la fuga dall’impegno e dalle responsabilità. E’ l’eroe negativo, l’antieroe per eccellenza, l’organizzatore di ricatti, imbrogli, di piccoli e inutili furti, il cinico regista di storie di sesso e di droga.
Esprime la degradazione dei rapporti sociali, il qualunquismo e l’indifferenza, la quotidianità sprecata, ”rappresenta il vuoto”, come dice lo stesso autore che, con una sensibilità ed uno sguardo estremamente dilatati, non registra gli eventi, non si limita a descriverli, ma li assume su di sé, li amplifica e gli dà corpo, diventando il cantore e l’interprete del malessere generazionale: “Andrea non resisteva mai a lungo a contemplare una cosa: di qualsiasi natura fosse, doveva toccarla, palparla, maneggiarla; in questo modo prendeva conoscenza della forma esterna e della struttura interna delle cose, ma, soprattutto, considerandole in quel momento intimamente, lui ne raggiungeva il cuore. Poi quando si metteva a disegnare era come se lui stesso fosse il soggetto del disegno … penso che lui vivesse realmente ciò che immaginava” (Marina Comandini Pazienza).
Nel 1984 abbandona Bologna, ormai soffocante e non più feconda ispiratrice, un amore inquieto e tormentato (la Betta richiamata in Pompeo), e si trasferisce in Toscana, a Montepulciano, spinto dall’amico Mauro Paganelli, poi editore de “Il Grifo”.
Qui, tra l’incanto di un paesaggio arcaico e intatto, di un panorama suggestivo ed evocativo, con una campagna morbidamente ondulata e colorata simile ad un mare ondeggiante e cullante, tra splendide costruzioni rinascimentali, - “orbene, poiché finestre guardino tocca al poeta prestare loro gli occhi… vedo la Val  d’Orcia…i paesi di Monticchiello e Montalcino, vedo Pienza vedo il monte Amiata il monte Totona dove vivevano gli etruschi. Ma sotto casa mia vedo la cosa più bella che a un uomo sia dato di vedere e cioè la chiesa del Sangallo, di S. Biagio” -, ritrova serenità e vigore, ritorna l’allegro e gioviale ragazzo di sempre, e si rigetta nel flusso ininterrotto di un magma creativo sempre più ribollente e tormentoso che riflette, vieppiù, l’itinerario personale, privato. Ora, il tratto si ammorbidisce, le narrazioni divengono più strutturate e definite, anche se, ad esse si intrecciano lavori irrisolti, episodici. Nascono storie ironiche, quasi comiche, satire sbeffeggianti, vede la luce “Pertini”, omaggio al presidente “partigiano e fuorilegge”, satira che irride, bonariamente e con complicità, il politico stizzoso e irascibile, irriverente e ribelle, fuori dagli schemi e dai giochi di palazzo, ma pieno di rigore morale, “l’ultimo esemplare di una razza di uomini duri ma con un cuore puro da bambino” che parla fuori dai denti e con passione e trasporto: suo ideale compagno e maturo fratello; e poi, “Pompeo”.
Pompeo, il punto più alto toccato da Pazienza, forse il suo capolavoro, è un’opera struggente, liberatoria e catartica, il diario non più collettivo ma intimo, è la narrazione “frame by frame” della discesa agli inferi, un componimento sulla tossicodipendenza e sull’eroina (l’altra faccia del cancro, dopo la lotta armata, che aveva roso e dilaniato tanti di quella generazione), sull’orrore e gli incubi da essa generati, e sul flirtare con la morte. Qui, con lucidità e impudica sincerità, abbandonando la consueta ironia, mette a nudo il suo animo, racconta della noia di una società opprimente e della volontà di non farsi fagocitare negli ingranaggi di una quotidianità omologata e senza fantasia, illustra e tratteggia, in maniera scarnificata e senza mediazioni o filtri, su fogli di quaderni a quadretti, il peso del vivere, la negazione di ogni speranza in un futuro prossimo o remoto.
Nello stesso tempo, partecipa a quello che sarà l’ultimo progetto, a cui si dà, come sempre, anima e corpo: “Frizzer”, diretta filiazione di Frigidaire, che già nel sottotitolo della testata “Tutto ciò che il buon senso sconsiglia in una rivista formato famiglia” dà il senso del percorso culturale - editoriale intrapreso. Artista eclettico e poliedrico, che fonde i diversi linguaggi della pittura, della fotografia, del cinema, della poesia, della musica e della scultura, in un proprio cosmo avanguardista, dopo le continue citazioni, evocazioni e allusioni, a Tristan Tzara, a Majakovskij, a Basquiat, ad Haring e a quell’universo innovatore e rivoluzionario, riporta, sul frontespizio di una delle sue ultime storie, i versi di Sandro Penna “forse perché la giovinezza è solo questo perenne amare i sensi e non pentirsi”, a preveggente suggello ed epitaffio di un’esistenza, vissuta in bilico tra la luce e il buio, tra inquietudini e passioni, sempre tesa alla ricerca di una vita “altra”. Il 16 giugno del 1988 a Montepulciano, un’overdose segna, a soli 32 anni, la fine in-volontaria del suo percorso umano e artistico, “logica e coerente” uscita di scena di uno degli interpreti più sensibili e geniali di quel male di vivere che ha consumato un’intera generazione.

Martino Amendola
(da Il Sidicino - Anno III 2006 - n. 10 Ottobre)