Il bel Cappellone barocco, che si apre a metà della navata destra della Cattedrale racchiude, nelle nicchie poste sui tre altari collocati nei tre bracci della croce greca, tre tele di grandi dimensioni (cm 200 x cm 120) dipinte dal napoletano Francesco De Mura.
Due delle tre tele hanno un soggetto che rimanda direttamente al Vescovo che le commissionò. Chiamandosi, infatti, quest'ultimo Giuseppe Martino, il De Mura pensò bene di fargli doveroso omaggio rappresentando in una tela S. martino che dona il mantello ad un povero e nell'altra la Sacra Famiglia con Giuseppe, la Madonna ed il Bambino.
Nella terza tela, qualla collocata sull'altare centrale, è raccontata la vicenda di S. Paride che libera la città di Teano dal terrore del drago.
Le tre tele hanno un andamento compositivo ed un'impostazione colristica che fanno pensare alla giovinezza del pittore, quando ancora era in corso l'apprendistato nella bottega del Solimena. Comune ai tre quadri è lo schema piramidale della composizione entro il quale le figure dei protagonisti, ispirate ai modelli monumentali propri del manierismo delle origini - per intenderc quello professato da Mattia Preti - vanno a collocarsi in uno spazio unitario, legati gli uni agli altri da un andamento circolare della luce.
Nel S. Martino è il mantello, di un vivido porpora, a collegare in una avvolgente rotazione della luce, le due figure del Santo e del povero e la composizione tende a chiudersi verso il centro con una innaturale e ardita torsione del cavallo dell'ignudo.
Nella Sacra Famiglia la luce disegna un moto circolare che avanza sulle braccia di S. Giuseppe e della Madonna e converge a spirale verso il fulcro da cui si dirama la luce, il Bambino Gesù.
E' per queste vie che rintracciamo in queste tele la quintessenza del barocco migliore. Il cerchio, la spirale, l'andamento ondulatorio sono proprio gli schemi costruttivi preferiti dal barocco, che lancia la sfida alla geometrica, razionale prospettiva rinascimentale per crearsi nuovi strumenti espressivi che gli consentano di aderire alla natura e portare a sintesi la complessità e la ricchezza delle forme del creato.
Il De Mura di questo periodo, raffrontato a quello, dei grandi affreschi ridondanti di forme e di colori realizzati nel Palazzo Reale di Napoli e di Torino, è stato dfinito un De Mura minore, oggi si direbbe minimalista. Ma è probabilmente proprio questo primo De Mura, - che dipinge Madonne dai volti pienotti, che usa colori delicati e accordi tonali sofisticati, che sperimenta nuove strutture compositive e approfondisce la ricerca sui grandi maestri veneti. - quello che ci sembra conservare una vicinanza alla vita e agli uomini del suo tempo. Il De Mura maturo, ricercato dai nobili e dai prelati per le sue grandi e vorticose composizioni, appare già lontano da ogni istanza di vita. Chiuso nei palazzi e nelle corti, è stato già divorato da quella nevrosi virtuosistica che ha svuotato la pittura del suo tempo di ogni "valore", che ha assegnato all'artista un'unica missione: mostrare il miracolo della tecnica, il prodigio del colore, il fare arte fine a se stesso.
E' tutta la pittura napoletana del Settecento che vive questa fase di logoramento del rapporto con la vita e di smarrimento di significato. Il processo è iniziato nel secolo precedente, nel momento stesso in cui Luca Giordano ha spinto il manierismo al punto più alto delle proprie possibilità. Già con lui la pittura ha espulso da se stessa ogni forma di contenuti, di idee, di tensioni che attengono alla storia e alla vita. Nemmeno lo "stile" trove cittadinanza in questa pittura che mira soltanto a destare meraviglia nello spettatore, mettendolo dinanzi ad una fantasmagorica costruzione di colori e accostando toni quasi impossibili, mai speimentati prima di allora.
Il vero e il verosimile non contano niente. Lo scopo della pittura non è suscitare idee, ma sollecitare forti emozioni emozioni visive, e la cifra che contraddistingue il grande pittore è solo la maestria tecnica.
Luca Giordano era scherzosamente chiamato “Luca vaco ‘e pressa” per la sua portentosa prolificità e rapidità di esecuzione. Alla sua morte, una folta schiera di pittori nell’Italia centrale e meridionale è pronta a raccoglierne l’eredità. Ma, come avviene sempre in questi casi, la spinta inventiva che pure era presente in Luca Giordano si viene affievolendo nei suoi epigoni. Se giunge attenuata in Francesco Solimena, decade in Francesco de Mura, suo allievo, a mera formula decorativa.
E’ curioso cogliere un altro aspetto che accomuna De Mura al suo modello Luca Giordano: la facilità e la felicità con cui realizzava le sue opere. Basti pensare che il solo anno 1738 vede Francesco De Mura impegnato in una serie di lavori che ad una altro pittore avrebbero richiesto numerosi anni: affresca l’immensa volta a padiglione dell’anticamera degli appartamenti reali di Napoli, in una fretta assoluta dettata dall’imminenza delle nozze di Carlo e Maria Amalia di Borbone; affresca la volta della Chiesa dei Santi Severino e Sossio; ma non basta: gli giunge la richiesta di quaranta tele da parte dei benedettini di Montecassino;.e per finire, il povero De Mura deve riportare su tela, in scala ridotta, tutti gli affreschi in via di esecuzione nel Palazzo Reale di Napoli e inviarli a Madrid per l’approvazione della Corte di Spagna. Un lavoro immane che De Mura porta a compimento con la sua prodigiosa tecnica che sembra cancellare la fatica e ignorare il tormento della creazione.
Se questo è lo sfondo dell’imperante rococò, su cui i pittori ripetono senza sosta ardite formule pittoriche ormai prive della brillantezza delle origini, è proprio nei momenti in cui essi si distaccano dall’abbagliante modello di Luca Giordano che riescono a trasferire nella loro opera gli echi di una vita su cui non amano riflettere. E’ accaduto al grande Gaspare Traversi. E’ accaduto, nelle tele di Teano, anche a Francesco De Mura che ci ha lasciato, come in un lieve racconto ricco di vita e spoglio di toni melodrammatici, la storia di un ateniese che, attraversando un paesaggio agreste e tenendosi con la mano un lembo del piviale rosso, incontra un drago e gli impone sulla testa il suo bastone per intimargli di tornare nel suo oscuro regno del caos.
Giuseppe Lacetera
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 4 Aprile) |