Don Giuseppe Caracciolo, Principe di Pettoranello, usava di preferenza il più antico titolo di Marchese di S. Agapito che il padre, Vincenzo, aveva ereditato per successione materna dalla teanese Donna Lucrezia De Angelis, ultima di tale famiglia che nel 1731 era andata sposa a Don Eustachio Caracciolo. Anche Vincenzo aveva sposato, nel 1773, un'altra teanese, D. Vittoria Galluccio, ultima del ramo teanese di quella grande famiglia, che portò in casa Caracciolo beni, come il latifondo di S. Massimo, che provenivano dall'antica contea longobarda e che in parte ancora oggi restano per successione in casa De Gemmis.
Don Giuseppe era nato il 26 febbraio 1781, molto probabilmente a Teano, e nel 1799 aveva sposato Anna Maria Ruffo, figlia del Principe di Scilla, alla quale Benedetto Pezzulli dedichò nel 1818 il suo Breve discorso storico su Teano. Gentiluomo di Camera del Re, non era di quei nobili come noi li immaginiamo, inoperosi, paghi del largo censo di cui potevano godere. Al pari di tantissimi esponenti dell'aristocrazia napoletana sotto la dinastia dei Borbone, don Giuseppe entrò invece nell'amministrazione centrale dello Stato e giunse a ricoprire l'alto ufficio di Intendente di Principato Ultra, ossia di prefetto della provincia di Avellino, ricevendo nel 1829 la commenda dell'Ordine di Francesco I. In precedenza era stato Intendente della provincia dell'Abruzzo Citra (Chieti). Continuò poi la carriera, ma a questo punto della sua vita si inserisce il documento che ora esaminiamo.
Il Marchese manifesta al Sovrano il suo profondo cordoglio nel vedersi inaspettatamente privato dell'incarico senza veruna ricompensa. È vero che il Re gli ha promesso un novello destino e gli ha accordato la metà del soldo, ma il cruccio del Marchese, che ha espletato funzioni pubbliche di rilievo per vent'anni, è tutto nella domanda “che dirà il Pubblico di me?" Il Pubblico infatti può pensare di lui assai diversamente e ciò per l'Intendente è una spina di più nel cuore. Dopo aver manifestato la speranza di ottenere un nuovo incarico, pensa anche che ciò potrebbe non verificarsi, potendo essere di ostacolo cagioni particolari a lui ignote; scongiura quindi la Sovrana giustizia a sottoporre la sua condotta ad un Legale e rigoroso esame, avendo certezza della sua innocenza e quindi di poter tornare innocente a 'piedi della Maestà.
Sul documento, in alto, si legge l'annotazione con minuta grafia: “Santangelo. Si comunichino al Marchese di S. Agapito tutti i carichi addossatigli onde potersi giustificare. Saluti” con la firma "Bianchini". È la firma di Ludovico Bianchini, lungamente Ministro di Polizia e degli Intemi di Ferdinando II, autore del trattato Del ben vivere sociale. Il Marchese era quindi stato rimosso dall'incarico di Intendente di Avellino per quei carichi addossatigli, ma dovette dimostrare la sua totale innocenza se pochi anni dopo fu nominato (la carica era di nomina regia) sindaco di Napoli per il biennio 1838-39. Fu anche reintegrato a pieno titolo nel ruolo occupato nell'amministrazione centrale. Nel 1853 fu di nuovo Intendente, ma questa volta di Terra di Lavoro, la nostra provincia, che all'epoca era la maggiore fra le dodici province continentali del Regno, estendendosi dalle falde del Vesuvio sino alla bassa Ciociaria e, sul lato occidentale, fino al confine del Regno presso Terracina. Ebbe quindi un grosso “avanzamento” di carriera, ma ancor più ebbe l'ambita onorificenza della Gran Croce dell'Ordine Costantiniano che si vede appuntata al petto nel ritratto.
Di lui resta anche il ricordo della grande riluttanza con cui dette ospitalità a Vittorio Emanuele II la notte del 26 ottobre 1860. Ormai ottuagenario, dovette acconsentire a dare ospitalità al monarca sabaudo nel palazzo di fronte al duomo, dove vent'anni prima aveva accolto Ferdinando Il e dove solo poche notti prima avevano pernottato i giovanissimi principi Alfonso e Luigi di Borbone, in procinto di raggiungere il Garigliano e poi Gaeta per l'ultima disperata e gloriosa difesa dell'indipendenza della Patria Napoletana.
Un'ultima annotazione. Questi documenti dell'amministrazione del Regno andarono in massima parte dispersi negli anni immediatamente successivi al 1860 e particolarmente quando calarono in forze reggimenti armati a reprimere il cosiddetto Brigantaggio. Non
meraviglia quindi che sia possibile reperirne qualcuno, autentica rarità, fuori degli archivi dello Stato. ln quegli anni fu distrutto o andò disperso tutto ciò che poteva avere attinenza con i non proprio infausti 127 anni di regno dei Borbone. Perciò siamo pieni di monete romane e medioevali, di documenti aragonesi e spagnoli, di armi e uniformi napoleoniche, ma non c'è più di qualche insignificante frammento delle sfavillanti divise del potente esercito di Ferdinando Il e della più gloriosa delle Marine che la penisola abbia mai avuto, prima e dopo l'unione d'Italia.
Guido Zarone
(da Il Sidicino - Anno VI 2007 - n. 4 Aprile) |