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L'Unità d'Italia: se ci fosse stato il federalismo

 
ORGANIZZATO DAL CIRCOLO “UNITÀ D'ITALIA”, IL CONVEGNO SI È SVOLTO IL 23 OTTOBRE NELLA SALA DELLE CONFERENZE DEL MUSEO ARCHEOLOGICO. RELATORI I PROFESSORI: FRANCESCO SAVERIO COPPOLA DIRETTORE DEL CENTRO STUDI E RICERCHE PER IL MEZZOGIORNI DEL S.PAOLO-IMI, VINCENZO COLALILLO, DOCENTE DI DIRITTO COSTITUZIONALE NELL'UNIVERSITÀ FEDERICO II E SILVANO FRANCO, DOCENTE DI STORIA DELLA MEDICINA NELL'UNIVERSITÀ DI CASSINO.
 

COPPOLA. L'economia del Mezzogiorno al tempo dell'Unità d'Italia.

L'Italia tutta, a metà dell'800, si trovava in condizioni di notevole ritardo rispetto al resto d'Europa. Rilevanti erano le differenze per quanto riguarda ad es. il prodotto interno lordo (PIL) e l'analfabetismo. All'interno della Penisola, le differenze economiche e sociali tra gli stati che la componevano erano tuttavia esigue, giungendo ad una divario non maggiore del 20 per cento.
Mancava, però, una precisa strategia di competizione e spesso si aveva una visione alquanto approssimativa della realtà. Illuminante è, in proposito, la concezione che si aveva al Nord del Mezzogiorno come un Paese dalle grandi risorse che, tuttavia, non riusciva ad avere un reddito più elevato perché era male amministrato: lo stesso Cavour era di quest'idea. In realtà, si può concordare almeno su un dato di fatto: i problemi finanziari del Regno delle Due Sicilie erano stati risolti con una severa politica di rigore da Ferdinando II, sebbene ciò avesse voluto dire sacrificare molte cose, tra cui, ad es., le infrastrutture. Si era così determinato un certo isolamento del territorio meridionale, cui faceva riscontro una politica protezionistica basata su un largo impiego della tariffa doganale a sostegno dell'industria endogena e quale fattore di attrazione di investimenti stranieri nel Regno.
Unificata la Penisola, i Piemontesi eliminarono su tutto il territorio nazionale le tariffe doganali, esponendo in tal modo l'industria meridionale ad un vero e proprio shock. Ora, anche in relazione a queste vicende, sembra potersi affermare che la classe dirigente napoletana, in definitiva, non esistesse (l'abbandono della capitale da parte di Francesco II nel settembre del 1860 lo testimonierebbe) o, per meglio dire, non avesse coagulato in sé quegli interessi e quegli elementi propri di una vera classe dirigente.
Può apparire espressione di un comune modo di sentire, come testimoniato dal romanzo I viceré di F. De Roberto, ove uno dei protagonisti volutamente ribalta l'espressione del D'Azeglio, affermando: fatta l'Italia, occorre fare i fatti propri.
In seguito al progressivo peggioramento delle condizioni economiche, le industrie presenti nel Mezzogiorno iniziarono a chiudere. A causa dei forti problemi di bilancio, il neonato Stato unitario non intervenne con le commesse pubbliche le quali, pur ridotte nel loro ammontare, andarono quasi esclusivamente a favore delle industrie settentrionali. Come reazione si ebbe una crescita degli investimenti e della produzione soprattutto nel settore agricolo, che era robusto e razionale pur se non moderno (persisteva ancora in parte la struttura del latifondo): si incrementò la produzione di vino, olio, agrumi, così come richiesto dai mercati internazionali. Questo sviluppo venne meno allorquando, intorno alla fine del 1880, si ripristinarono le tariffe doganali per consentire alle imprese tessili, meccaniche e siderurgiche settentrionali di competere con l'industria europea: per tutta risposta, gli Stati europei imposero forti dazi sui prodotti agricoli, rimasti l'unica risorsa dell'economia meridionale. In tal modo, il sistema finanziario si trovò carico di sofferenze e non fu in grado di aiutare la struttura economica che si era indebolita. La crisi determinò un'emigrazione che al Sud assunse dimensioni da esodo biblico, facendo parlare per la prima volta di una Questione meridionale. In sostanza, l'errore fondamentale fu la mancata applicazione di modelli diversificati in relazione alle varie realtà della Penisola.
D'altra parte, non si pensò nemmeno di investire le rendite che l'agricoltura meridionale produsse fino al 1890 circa. Si assistè alla perdita di quel capitale sociale costituito dalle maestranze delle industrie meridionali smantellate. Anche l'estensione della legge Casati e, poi, la riforma Coppino trovarono impreparato il Mezzogiorno poiché, essendo i maestri stipendiati dai Comuni, la scuola funzionava in ragione delle risorse economiche municipali, supplita spesso da scuole private, laiche e cattoliche. La reazione civile che si ebbe assunse i toni di una questione d'identità socio-culturale. Da una parte si verificò il fenomeno del brigantaggio, dall'altra si sviluppò una discussione antropologica, al punto che si arrivò a sostenere (Lombroso) l'inferiorità razziale dei Meridionali.
Se guardiamo al federalismo, possiamo notare come secondo alcuni il Risorgimento sia stato tradito, perché la sua visione più autentica (tanto nella versione cattolica del Rosmini quanto in quella laica del Cattaneo) era di un federalismo nazionale (vale a dire, più stati indipendenti che si federavano). Come immediato precedente, vi era stata l'ipotesi di federalismo a carattere economico, che proprio i Borbone avevano avanzato nel 1840 per diminuire i dazi tra gli Stati della penisola.
L'idea federale sarebbe poi sfociata nel regionalismo della Costituzione del 1948. Forse, in definitiva, è anche vero che si poteva pensare, nel 1860, ad un federalismo tra i vari Stati della Penisola: ma ciò avrebbe voluto dire parlare di un'altra Italia, un'altra Europa, un altro mondo.

COLALILLO. L'estensione della legisla- zione e dell'amministrazione piemontesi al nuovo regno.

Va anzitutto ricordato come il mito del Risorgimento abbia influenzato anche i redattori della Costituzione, che ebbero ad intendere le autorità regionali al centro dell'assetto istituzionale che oggi si vuole riformare in senso federale. Per quanto riguarda il fenomeno storico dell'estensione della legislazione piemontese al neonato Regno d'Italia, deve dirsi che fu il risultato di una somma di occasioni. Cavour ben conosceva la diversità delle legislazioni autonomistiche e delle condizioni del territorio, anche se era falsamente informato sulla realtà meridionale, ritenendo che i problemi del Mezzogiorno dovessero essere inquadrati in un'ottica di mala governabilità. D'altra parte, non conosceva bene quella che era la legislazione del Regno borbonico, la quale in molti casi era giunta ad un notevole grado di evoluzione. Ad esempio, già dal 1842, erano stati emanati i regolamenti per la Guardia Urbana e disciplinata la polizia mortuaria; nel 1852 ci fu una nuova definizione delle attribuzioni del sindaco, dei giudici del circondario ecc. per garantire appunto le autonomie locali. Tale grado di autonomia era impensabile per il Piemonte, che aveva una struttura improntata ad un sistema di decentramento di stampo napoleonico. Ad ogni modo, Cavour si era reso conto che le diversità locali non potevano essere ricondotte ad unità, ma il processo unitario correva troppo veloce. Nel periodo 1856-58, si erano avute le prime contrapposizioni tra la Sinistra e la Destra Storica. Dopo la proclamazione del Regno d'Italia, allontanandosi dalla visione del primo ministro, il Parlamento, espressione di una ben precisa linea politica, cercava di estendere gradatamente, in funzione edittale, le leggi piemontesi agli Stati annessi, dando la stura a una massiccia decretazione d'urgenza. Solo nel 1865 si ebbero i primi testi unici (nelle materie del contenzioso amministrativo e dei lavori pubblici), nonché la legge sulle espropriazioni.
Per incominciare a parlare di una legislazione del Regno d'Italia bisogna però attendere l'ultimo decennio del XIX secolo: ma ormai premevano le ideologie del '900 e si era alla soglia delle avventure coloniali che avrebbero ulteriormente impoverito la nostra economia la quale non era garantita da un sistema legislativo adeguato. Solo nel periodo compreso tra il 1920 ed il 1950 si ebbe la vera e propria legislazione unitaria: una pagina ancora in buona parte da esplorare.

FRANCO. La legislazione socio-sanitaria degli Stati preunitari.

In campo sanitario, i sistemi normativi del Regno di Napoli e (in base ad una lunga tradizione storica) del Granducato di Toscana erano all'avanguardia, mentre il Piemonte ebbe una legislazione sanitaria solo nel 1847 che, resa poi organica nel 1859, fu estesa all'intero Regno d'Italia.
Il Regno delle Due Sicilie aveva già avuto una legge organica in materia sanitaria nel 1819. Era inoltre all'avanguardia per quanto concerneva la costruzione dei cimiteri e la lotta al vaiolo (con decreto del 1821 fu resa obbligatoria la vaccinazione). Anche per debellare il tifo e la malaria furono attuate vaste opere di bonifica del territorio. Nel periodo post unitario 1865-69, si approvarono numerosi progetti di bonifica del Regno, ma fu portato a compimento solo quello relativo al basso Volturno.
Peculiari aspetti contraddistinguevano il sistema carcerario borbonico, poiché si prevedeva, da un lato, la finalizzazione al recupero del soggetto che avesse commesso piccoli reati mentre, dall'altro, era colpita molto duramente la cospirazione politica. Inoltre, vi erano appositi bracci carcerari riservati esclusivamente a quei detenuti in attesa di giudizio, nonché una separazione dei vari detenuti che teneva conto non solo del tipo di reato commesso ma anche della loro differenziazione sociale.
Anche il sistema ospedaliero napoletano occupava posizioni di tutto rispetto nell'ambito del contesto europeo. Criterio fondamentale dell'organizzazione sanitaria era quello riguardante la diversificazione delle malattie: ad es., nel 1813 fu fondato per i malati di mente l'ospedale di Aversa, posto sotto la direzione di Giovanni Maria Giusti, dove si recavano delegazioni straniere per studiare i metodi di cura ivi praticati. Con l'Unità d'Italia fu definitivamente soppresso (aveva infatti funzionato a pieno regime sino al 1848) finché, nel 1875-78, non fu trasformato in manicomio criminale.
L'attenzione che il Regno borbonico aveva dedicato agli aspetti della vita e delle condizioni igienico-sanitarie della popolazione fu, per lo più, solo marginalmente perseguita da quelle forze politiche che si avvicendarono al Governo dopo il 1860: per vedere attuato un programma di più vasta portata e di più ampio respiro bisognerà attendere non tanto le riforme realizzate dal governo Crispi nel periodo 1888-90 in materia di igiene e salute pubblica e delle Ipab (istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza) quanto, piuttosto, quelle giolittiane (ad es., la costruzione dell'acquedotto pugliese) e, soprattutto, le ben note bonifiche realizzate durante il periodo fascista (precisamente, dal 1923 al 1939).

Emanuele Verdolotti
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 11 Novembre)