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Medici di un tempo

 
L’autore, decano dei nostri collaboratori, continua nella rievocazione di aspetti e personaggi della prima metà del novecento. è ora la volta dell’organizzazione sanitaria, sicuramente insufficiente, ma gestita da medici che hanno lasciato vivo ricordo e largo rimpianto
 

In un recente numero di questo mensile il dott. Lucio Salvi, nel comunicare il suo ritiro in quiescenza, lamentava le difficili condizioni in cui è costretto a lavorare il medico di base affermando, senza mezzi termini, che è diventato un semplice estensore di ricette perché, a parte quella che è la sua diagnosi, il paziente pretende che gli prescriva molti farmaci a pena di definirlo cattivo medico e di cambiarlo con uno più indulgente.
Purtroppo ciò è vero. Ma è solo colpa dei clienti e non del medico che tende ad assicurarsi il maggior numero possibile di assistiti, fino a tenere affollatissime sale d'attesa tanto da dover ricorrere al distributore dei numeretti di turno? Si dice cha una buona diagnosi si fa colloquiando con il paziente. Ma il medico ha il tempo per farlo mentre in tanti aspettano il turno?
È il medico stesso che ha scelto di fare l'impiegato e non più il missionario come un tempo. Ha stabilito i giorni e gli orari di visita, si è scrollato di dosso la sera e le nottate. Risolve i casi più spinosi prescrivendo analisi, radiografie, ecografie e quant'altro la scienza gli mette a disposizione. Certo, una volta tutto questo non c'era e quindi c'era meno certezza nella diagnosi. Eppure quanta nostalgia per il vecchio medico condotto!
Erano tempi molto più difficili sia per il medico che per il paziente e il medico era costretto a formulare la diagnosi affidandosi non solo alla sua preparazione, ma anche al suo intuito. Intanto il ricorso al medico era più raro poiché si pagava la visita e si pagavano le medicine e non tutti potevano farlo. Spesso si ricorreva al consiglio di praticoni del vicinato o della donnetta che interveniva sulle slogature o sulle fratture con rudimentali ingessature con albume d'uovo e qualche stecca maldestramente fasciata.
Con grande venerazione ricordo la figura del dott. Pietro Cangiano, un vero missionario. Dopo le poche visite del mattino in ambulatorio, con precisione cronometrica soleva percorrere le vie cittadine per rendersi disponibile a chiunque ne avesse avuto bisogno. Tutti sapevano con certezza l'ora in cui sarebbe passato e, all'occorrenza, lo attendevano sull'uscio di casa o alla finestra per chiedere il suo intervento. Procedeva a piccoli passi, data la sua età e le condizioni delle strade, tenendo nella sinistra un bastoncino e la destra sempre in prossimità del cappello, che usava sollevare per rispondere ai tanti che incontrandolo lo salutavano con deferenza. Quando era chiamato al capezzale di un malato, si sedeva, lo ascoltava, gli guardava le mani, la bocca, gli occhi e già formulava la sua prima diagnosi. Poi passava ad auscultare le spalle e il petto, a bussare con le nocche delle dita sull'addome e infine dava la prescrizione. Nel frattempo si era guardato intorno e, se riteneva che la famiglia era tanto povera da non poter comprare le medicine, furtivamente faceva scivolare qualche moneta sotto il cuscino o sotto la ricetta che poggiava sul comodino.
La sua condotta medica era quella di Teano centro. Per le frazioni c'erano altri medici condotti che dovevano recarsi nella varie borgate secondo un turno stabilito.
Ricordo la figura del dott. Alfonso De Quattro che, in mancanza di altri mezzi di trasporto, usava raggiungere il posto di lavoro in sella a una cavalla, sulla quale, avvolto in un ampio tabarro, attraversava al mattino il Corso, guardandosi intorno con la solennità di un generale che passava in rassegna, compiaciuto, le sua truppe. Ciò che mi incuriosiva era che, se incontrava dei giovani, questi, sollevando in alto la destra, gridavano: “…scisti!” Ed egli, quasi con orgoglio, ripeteva il gesto e il motto. Compiva quindi il suo lungo giro quotidiano e allo stesso modo faceva ritorno a casa.
Il dottore Marseglia, don Mimì, sempre molto elegante e curato nel vestire, aveva invece al servizio un giovanottone che ogni mattino veniva a rilevarlo con un calessino trainato da un pony.
Questi medici facevano il loro giro qualunque fosse il tempo, ma il peggio veniva quando c'erano chiamate nelle ore notturne. Per gli abitanti del centro era facile arrivare a casa del medico, bussare, esporre le esigenze e il medico, senza se e senza ma, si vestiva in fretta e accorreva al capezzale del paziente. Se c'era invece necessità del medico in una frazione o nelle campagne, allora un parente o un amico del malato si procurava un calesse e veniva a Teano a chiedere l'intervento del medico condotto che rispondeva con zelo e sollecitudine e si recava con lui a compiere il proprio dovere. A quei tempi non esistevano i medici di turno, il pronto intervento, le ambulanze e il povero medico era costretto ad assistere il malato fino a giorno inoltrato per poi tornare a casa, non per concedersi un meritato riposo ma per iniziare una nuova giornata di lavoro.
Erano medici di frontiera eppure non si lamentavano, come fanno tanti medici ai tempi d'oggi.

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno V 2008 - n. 9 Settembre)

Il dottor Pietro Cangiano (1881 - 1948)
Il dottor Alfonso De Quattro (1862 - 1942)