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"Titto, avete gli alici?"

 

Un gruppetto di scapoloni, con pochi impegni di lavoro ma con la disponibilità di qualche liretta, soleva riunirsi per trascorrere la serata rallegrati da qualche bottiglia di buon vino sostenuta da qualche stimolante stuzzichino. Allora non v'erano ristorantini, pizzerie, pub o altro locale d'incontro se non le numerose trattorie che si industriavano a preparare del baccalà fritto o in bianco con limone, alici o anguille fritte, il soffritto di capretto con molto peperoncino, la trippa sale e pepe, il fegato di maiale. Tutte cose un po' costose per i nostri amici che cercavano di fornirsi del necessario presso i negozi, anche se all'epoca era disdicevole per un giovanotto di buona famiglia farsi vedere a fare queste spesucce. Allo scopo interveniva perciò un quinto elemento che scapolo non era, era però desideroso di condividere la gioia di quegli incontri ma non aveva la disponibilità finanziaria necessaria.
Egli era perciò indispensabile per la buona riuscita delle serate. Al crepuscolo di ogni giorno, si metteva di vedetta in piazza Umberto I, in attesa che arrivasse qualcuno del gruppo. Subito lo avvicinava per informarsi sulla volontà di organizzare qualcosa per la serata. Avutane conferma, con passetti brevi e veloci si avviava ad allertare gli altri componenti della comitiva. A raduno avvenuto e concordato il da farsi, egli indicava, secondo le informazioni che aveva assunto, in quale trattoria era arrivato di recente il vino migliore. Ricevuto l'adeguato finanziamento, si avviava speditamente a fare gli acquisti richiesti che portava subito al locale stabilito.
La combinella iniziava in sordina, poi, man mano che i fumi salivano, aumentava l'allegria, ma sempre con moderazione. Qualcuno cominciava ad esprimersi in forma classicheggiante, qualche improvvisava dei versi, ma il culmine era sempre riservato al poeta Miffo, che si cimentava a recitare un'ode o un sonetto improvvisato, che poi tentava di portare a conclusione nonostante i fischi e i pernacchi.
A volte accadevano degli imprevisti.
Una sera il consueto incontro avvenne a tarda ora. le botteghe erano già chiuse e a stento si riuscì a rifornirsi di pane. Con che accompagnarlo? Pensa e ripensa, si decise di importunare Tittillo, che aveva casa a pochi passi dalla bottega. Ma chi avrebbe avuto l'ardire di chiamarlo? Si decise che doveva essere proprio il figlio Michele, che non si tirò indietro, sicuro di potersi celare all'ombra del vicino portico. Si avvicinarono al portone e bussarono. Quando Tittillo si affacciò, Michele, camuffando la voce, chiese: "Titto, avete gli alici?" E Tittillo rispose innervosito: "Ho le sarde e l'anima di chi ti è stramorto!". Poi sbattè con violenza l'imposta.
Quella sera spesero qualche lira di più, ma godettero anche di più, perché nell'osteria trovarono una pietanza più appetitosa del solito spuntino.
Normalmente la cenetta terminava quando l'oste faceva cenno che era ora di chiudere. Allora il più solerte riempiva l'ultimo bicchiere e sollvandolo intonava il solito inno di chiusura: Viva Noè gran patriarca / Patrono dell'arca. E il coro proseguiva: Perché è l'inventore / di questo liquore / che allegro fa star... Chiudeva il solista:bevevano i nostri padri? E il coro rispondeva: Si! Infine tutti: E noi che figli siamo / beviamo, beviamo...
Una sera d'autunno, complici il primo fresco e la bontà del vino novello, uno della brigata alzò troppo il gomito e al momento di andare via mostro evidenti segni di instabilità e di appannamento della vista. Si ritenne opportuno accompagnarlo almeno fino all'imbocco del dedalo di vicoli che lo portava a casa. Qui giunti lo lasciarono, sicuri che egli sapesse percorrere il breve resto del percorso. Il tempo era minaccioso. Fu questione di un attimo e una folata di vento, come spesso accadeva allora, fece mancare la corrente elettrica. Il malcapitato, già in grave difficoltà di lumi, precipitò nel buio più assoluto. Tentò di fare qualche passo e inciampò in uno scalino; corresse la rotta e sbatté contro un muro. Tentò allora di procedere in senso inverso e si scontrò con un altro muro. Per sua fortuna era sotto un portico, al riparo dalla pioggia, ma pervaso da grande sconforto si appoggiò al muro sperando in un soccorso. Finalmente la luce tornò, fece il punto della situazione, ritrovò l'orientamento e riuscì a raggiungere il portone di casa appoggiandosi al muro. Salì gattoni le scale e si buttò semivestito sul letto per sognare "floridi pascoli e aure biade".

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno III 2006 - n. 12 Dicembre)